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Introduzione

Northern Wind vuole commemorare la storia, le figure e le opere della Nazione Olandese Alemanna, nata a Livorno 400 anni fa dall'unione dei primi mercanti fiamminghi e tedeschi operanti nel porto. A partire dal XVII secolo, la Nazione (poi costituitasi in Congregazione) raccolse residenti stranieri di varie nazionalità tra cui Olandesi, Fiamminghi, Svizzeri, Scandinavi e, talvolta, Francesi. L'impossibilità di riunire fisicamente nello stesso luogo e nello stesso periodo opere conservate in svariati musei non solo europei ha suggerito di ricorrere ad una mostra virtuale, che raccoglie una serie di testimonianze visive sicuramente associate a membri di questa nutrita comunità.

Divise in tre sezioni tematiche, le opere incluse nella mostra illustrano i molteplici legami che unirono, ed uniscono ancora oggi, i Nordici al porto toscano. Il titolo Northern Wind vuole evocare non solo la ventata di aria fresca, sotto un profilo economico e culturale, che i membri della Nazione portarono dal Nord Europa alla città ma anche le vele spiegate dei vascelli con cui essi solcavano il mare arrivando e partendo dal porto toscano.

Un altro aspetto saliente della vita dei Nordici a Livorno è il distacco dai familiari e dal loro luogo di origine. Nelle opere selezionate, a partire dal dettaglio del dipinto di Gabriel Metsu (1629-1667), Donna che legge una lettera, Dublino, National Gallery of Ireland, scelto per l'immagine di copertina, è possibile avvertire il tema dell'assenza e del distacco che sottendevano la vita di chi si dedicava, o aveva parenti dediti, all'attività mercantile e navale. La circolazione in ambito nordico di numerose raffigurazioni di Livorno va in parte ripensata sulla scorta dei legami affettivi o lavorativi che univano le famiglie dei Paesi Bassi, della Germania o dei paesi Scandinavi al porto toscano. In un flusso ininterrotto di merci e persone, il legame tra Livorno e la Nazione Olandese-Alemanna andò a toccare e ad influenzare la cultura di entrambi i poli qui presi in considerazione.

Grazie alle fotografie ad alta risoluzione e alle schede storico critiche che le accompagnano - curate da storici e storici dell'arte le cui ricerche si concentrano da tempo su Livorno - è possibile osservare le ventiquattro opere della mostra sotto una nuova luce, scoprendo in esse dettagli ed informazioni inedite.

Credits

Il progetto, realizzato con il contributo della Fondazione Livorno, Fondazione Livorno Arte e Cultura e dell'Università di Pisa, si inserisce nell'ambito delle celebrazioni per il quarto centenario dalla fondazione della Congregazione Olandese-Alemanna di Livorno. Il sito web è ospitato su server dell'Università di Pisa.

Le pagine della mostra possono essere scaricate per uso privato come catalogo in pdf.

Le fotografie ad alta risoluzione sono state gentilmente concesse dal Laboratorio Fotografico del Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere, che ha provveduto alla campagna fotografica in loco, e dai musei e dalle fondazioni che conservano le opere. I musei e le fondazioni che detengono i diritti delle immagini e che ringraziamo per la disponibilità sono (in ordine alfabetico): National Gallery of Ireland, Dublin; Gallerie degli Uffizi, Firenze; Fondazione Livorno, Livorno; Musei Civici, Livorno; British Museum, London; National Gallery of Art, Washington, D.C.

Il Rijksmuseum, Amsterdam; il British Museum, Londra; la National Gallery, Washington, D.C.; la Nivaagaard Malerisamling, Nivaa; lo Statens Museum for Kunst, Copenhagen, e lo Staedel Museum, Frankfurt am Mein hanno concesso l'utilizzo delle immagini delle loro opere con licenza Creative Commons, Attribution-NonCommercial-ShareAlike 4.0 International licence (CC BY-NC-Sa 4.0).

Gli autori delle schede sono (in ordine alfabetico): Andrea Addobbati, Francesco Freddolini, Silvia Papini, Manuel Rossi, Giovanni Santucci, Cinzia Maria Sicca, Alessandro Sonetti, Vincenzo Sorrentino.

Il lavoro è stato coordinato da Cinzia Maria Sicca e Silvia Papini.

Responsabile dell'ideazione grafica e della realizzazione tecnica è Studio Proclama.

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I luoghi degli Olandesi Alemanni a Livorno

Domenico Pugliani

  • Martirio di S. Andrea 1626 Olio su tela
    360x230 cm
    Livorno, Chiesa della Madonna

La pala d'altare visibile tutt'oggi sul secondo altare a sinistra della chiesa della Madonna di Livorno rappresenta il Martirio di Sant'Andrea, un'opera realizzata a pochi anni dalla concessione di questo spazio alla nazione olandese-alemanna, avvenuta nel 1622 (Dal Canto-Taccini 1980). In chiesa si concentrano diverse cappelle di patronato di comunità nazionali, quali i corsi, i portoghesi e i francesi (Scalavino 2006). Il San Luigi di Francia di Matteo Rosselli sul primo altare a sinistra, fu il primo ad essere realizzato nel 1612 e fu un omaggio del granduca Cosimo II ai mercanti francesi (Rossi in Firenze 2001, pp. 147-148); a questo seguì il più narrativo Sant'Andrea che Riccardo Spinelli ha potuto non solo datare al 1626 e attribuire con certezza al pittore Domenico Pugliani (1589-1658), ma per la cui commissione può anche attestarsi il coinvolgimento di Maria Maddalena d'Austria, una delle "Serenissime tutrici" del giovane Ferdinando II, granduca di Toscana. Infatti, in alcune lettere del febbraio-marzo 1626, si rassicurava il suo segretario che "il Pugliani a finito il S. Andrea e che si manderà" (Spinelli 1999, p. 24 e Idem 2021, pp. 111).

Il dipinto rappresenta il momento immediatamente precedente alla crocifissione di Sant'Andrea -l'uomo anziano del gruppo- che, come racconta la Legenda aurea di Jacopo da Varagine, in segno di rispetto per Cristo, fu legato ad una croce decussata, cioè a foggia di X. Sant'Andrea viene spogliato dalle sue vesti da uno dei suoi carnefici, mentre altri due, a sinistra della scena, stanno divaricando i due tronchi legati tra loro da corde e, al contempo, li stanno conficcando nel terreno. In secondo piano, solo parzialmente visibile, c'è da immaginare una folla di centurioni romani dei quali si riescono a scorgere vessilli e lance. Nel registro superiore, grazie a un espediente impiegato largamente dai pittori della generazione precedente, come Ludovico Cardi detto il Cigoli, nel cielo addensato di nuvole si apre uno squarcio da cui discende un angelo che reca al santo corona e palma del martirio e attraverso cui è visibile la Trinità circonfusa da una luce abbagliante.

La composizione sembra rifarsi ad un prototipo di Matteo Rosselli, maestro del Pugliani, nella chiesa fiorentina di Ognissanti, che, ruotata di centottanta gradi rispetto a un asse centrale, è resa anche più drammatica (D'Afflitto 2002, pp. 67-69). L'impaginazione della scena è assai prossima anche alla pressoché contemporanea tela di Fabrizio Boschi per la chiesa fiorentina di Gesù Buon Pastore delle Stabilite, rubata nel 1997, ma nota attraverso una foto d'archivio (Spinelli 2001). Per quanto attiene alla fortuna del modello del Pugliani, potrà evocarsi, invece, il Martirio di Sant'Andrea di Carlo Dolci, realizzato nel 1646 e noto in più versioni, la più nota è oggi presso la Galleria Palatina di Palazzo Pitti (Bruno in Firenze 2015, pp. 202-205).

All'interno delle guide livornesi, il dipinto è stato a lungo attribuito ad un anonimo fiammingo del diciassettesimo secolo e solo nel 1980, su suggerimento di Federico Zeri, andava precisandosi il nome di Giovanni Bilivert (Dalli Regoli 1980, p. 268). Come rilevava Contini (1986, pp. 55-57), nell'individuazione del nome del pittore, non dovette essere ininfluente il tentativo di riconoscervi un artista connazionale alla comunità cui apparteneva la cappella, quale, effettivamente, era il Bilivert, nato a Firenze, ma figlio di un orafo originario di Delft. Viceversa, parte della critica ha ascritto la pala a Domenico Pugliani, un fedele allievo di Matteo Rosselli (Contini 1985, p. 52 e Baldassari 2009, p. 623), potendo addurre all'attribuzione riferimenti documentari resi espliciti solo di recente (Spinelli 1999, p. 24 e Idem 2021, pp. 111 e n. 37).

L'altare in cui si colloca la pala si conforma a quello in marmo bianco e nero d'Italia realizzato dalla colonia francese poco prima della commissione della pala al Rosselli. Sia questo altare che quello dei Corsi recano traccia evidente dei loro committenti: lo stemma dei reali di Francia nell'architrave del primo e le iniziali di quattro munifici mercanti corsi sui plinti delle colonne nel secondo (Dalli Regoli 1980, pp. 287-288). Viceversa, nell'architrave dell'altare della nazione olandese-alemanna, è visibile un più generico cristogramma privo di evidenti connessioni con gli stati esteri cui appartenevano i membri della nazione. Una simile assenza potrebbe motivarsi in virtù della natura composita e 'plurale' della nazione olandese-alemanna, che accoglieva al suo interno membri provenienti dall'Impero asburgico, dalle Fiandre, dalle Province Unite e dagli Stati tedeschi. Furono, probabilmente, i paramenti sacri e la suppellettile ecclesiastica a recare impressi gli stemmi familiari dei singoli membri o quelli degli stati esteri di provenienza. Forse anche per supplire all'assenza di insegne permanenti, alla metà del Settecento, i mercanti olandesi a Livorno commissionarono ad un anonimo scalpellino il confessionale marmoreo posto accanto al loro altare e coronato dall'emblema dei francescani, cui apparteneva la chiesa, combinato con la corona dei reali d'Olanda (Mai 2001, p. 65).

Vincenzo Sorrentino

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Fabrizio Dal Canto, Simonetta Taccini, "Chiesa della Madonna," in Livorno: progetto e storia di una città tra il 1500 e il 1600 (Pisa: Nistri-Lischi e Pacini, 1980), pp. 284-287.
  • Gigetta Dalli Regoli, "La produzione artistica destinata alle strutture livornesi. Committenza granducale e opere promosse dalle istituzioni locali," in Livorno: progetto e storia di una città tra il 1500 e il 1600 (Pisa: Nistri-Lischi e Pacini, 1980), pp. 263-277.
  • Roberto Contini, Bilivert: saggio di ricostruzione (Milano: Sansoni, 1985).
  • Roberto Contini, "Apocrifi bilivertiani, e altro," Paradigma 7 (1986), pp. 53-69.
  • Riccardo Spinelli, "La Compagnia della Madonna della Neve nella pieve di San Pietro a Vaglia e i suoi dipinti," in Dipinti del Seicento a Vaglia. Sei tele di Domenico Pugliani e Lorenzo Lippi restaurate, a cura di Maria Matilde Simari (Firenze: Polistampa, 1999), pp. 17-31.
  • Elena Fumagalli, Massimiliano Rossi, Riccardo Spinelli, a cura di, L'arme e gli amori: la poesia di Ariosto, Tasso e Guarini nell'arte fiorentina del Seicento (Livorno: Sillabe, 2001).
  • Eufrasio Mai, La chiesa della Madonna di Livorno: una chiesa tutta dialogo (Livorno: Stella del Mare, 2001).
  • Riccardo Spinelli, "Di un disperso "Martirio di Sant'Andrea" di Fabrizio Boschi ritrovato (e nuovamente scomparso)," Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz 45, no. 1/2 (2001), pp. 313-318.
  • Chiara D'Afflitto, Lorenzo Lippi (Firenze: Edifir, 2002).
  • Maria Antonietta Scalavino, "Le comunità straniere cattoliche nella Chiesa della Madonna di Livorno," Comune notizie no. 56 (luglio-settembre 2006), pp. 5-11.
  • Francesca Baldassari, La pittura del Seicento a Firenze: indice degli artisti e delle loro opere (Milano: Robilant+Voena, 2009).
  • Sandro Bellesi, Anna Bisceglia, a cura di, Carlo Dolci 1616-1687 (Livorno: Sillabe, 2015).
  • Riccardo Spinelli, "Gli affreschi di Matteo Rosselli e Domenico Pugliani nella cappella Del Palagio alla Santissima Annunziata di Firenze," Artista no. 3 (2021), pp. 106-117.

Alessandro Gherardini

  • Immacolata Concezione con Dio Padre, San Giovanni Battista e Santa Lucia 1714 Olio su tela
    320,5x204 cm
    Inv. 1890, n. 9680
    Iscrizioni: in basso a sinistra sul recto "A. G. 1714"; sul verso "Alessandro Gherardinj / Fioren.o F. l'anno / 1714 / in Livorno."
    Provenienza: Cappella di villa Huygens, Livorno; Firenze, Gallerie degli Uffizi, dal 1981.
    Firenze, Gallerie degli Uffizi, Depositi

Il dipinto, siglato dal pittore con le iniziali e la data sulla roccia in basso a sinistra, e recante una iscrizione tarda sul retro che probabilmente è stata ispirata proprio dalla firma autografa, fu realizzato nel 1714 dall'artista fiorentino per l'altare della cappella annessa alla villa Huygens, nei pressi di Livorno. La tela ornava originariamente l'altare della cappella, realizzato dallo stuccatore luganese Giovanni Martino Portogalli e recante un'iscrizione che ne fissava la datazione al 1707 (Sonetti 2020-2021, p. 106). Alessandro Gherardini (1655-1723) dovette quindi ricevere l'incarico di dipingere la tela negli anni immediatamente successivi. Dopo vari peregrinaggi attraverso tutto il corso della sua carriera che lo avevano portato fino in Emilia e Veneto, dove il pittore aveva studiato Correggio e la pittura veneta contemporanea, tornò a Firenze ma a causa del proprio temperamento irrequieto non ebbe vita facile nella capitale granducale. Oltre ad un soggiorno in Danimarca, negli anni immediatamente successivi alla visita del re Federico IV avvenuta nel 1709, Gherardini trascorse almeno due periodi a Livorno, al servizio dell'élite mercantile cittadina, evidentemente cercando di sfruttare a proprio favore le possibilità che il grande centro commerciale granducale offriva in relazione ad un mercato dell'arte potenzialmente internazionale. È probabile che proprio Giovanni Antonio Huygens, che aveva ospitato Federico IV nel suo palazzo di via Borra, avesse supportato il pittore fiorentino durante il viaggio verso la Scandinavia attraverso la propria rete di legami commerciali. Di conseguenza, appare plausibile ritenere che il legame con Giovanni Antonio Huygens dovette perdurare anche dopo il rientro in patria del Gherardini.

La villa che Huygens aveva costruito nella località Prati di Santa Lucia fu eretta da Pompilio Ricci che, come ricorda Vivoli nei suoi Annali (IV, p. 604), era cognato dell'abate Vallombrosano Colombino Bassi, anima del monastero vallombrosano di Valle Benedetta. La cappella annessa alla villa fu dedicata proprio a Santa Lucia, in perfetta sintonia con il toponimo dell'area. In questo dipinto, Santa Lucia, santa titolare della cappella è raffigurata in adorazione della Vergine Immacolata, alla quale Giovanni Antonio Huygens era particolarmente devoto, a tal punto che ogni anno ne finanziava i festeggiamenti nel duomo di Livorno (Meloni Trkulja 1985, p. 77), mentre San Giovanni Battista, santo eponimo dello Huygens rivolge lo sguardo al di fuori del dipinto, direttamente verso lo spazio dello spettatore e impersonando quindi attivamente il suo ruolo di profeta e di personaggio cui era demandato il compito di accompagnare lo sguardo dell'osservatore all'interno del dipinto. La scelta dei due santi appare frutto di un'attenta riflessione sul ruolo simbolico e politico del dipinto: Giovanni, Lucia e la Vergine, sotto la protezione di Dio Padre, formavano un trio di figure che enucleava -nella residenza del committente stesso- il rapporto tra un mercante proveniente da Colonia, e la città di Livorno, dove si era integrato a tal punto nel contesto religioso e culturale cittadino da esser divenuto il principale promotore del culto dell'Immacolata Concezione. Lucia evocava il luogo stesso della residenza suburbana di Huygens, e si stabiliva in diretta relazione con la Vergine -una relazione esplicitata dalla postura adorante della santa e dallo sguardo di Maria, a lei direttamente rivolto- mentre Giovanni Battista costituiva un diretto riferimento tanto a Giovanni Antonio Huygens, quanto alla capitale del Granducato, centro politico da cui tutto dipendeva. Da una prospettiva più squisitamente stilistica, il dipinto si inserisce agilmente nella fase matura di Alessandro Gherardini, soprattutto per l'uso di un colore molto pastoso, che lascia ben trasparire la gestualità delle pennellate e crea forti contrasti tra luci abbaglianti che si riflettono sulle vesti preziose e brillanti di Santa Lucia e della Vergine, ed ombre che si addensano nelle pieghe dei panni e sulla muscolatura del Battista, oltre che nello sfondo da cui emergono i cherubini che circondano Dio Padre. L'intensità nell'uso del colore come elemento costruttivo delle forme, quasi a volersi contrapporre alla tradizionale razionalità disegnativa tipicamente fiorentina, all'altezza del secondo decennio del XVIII secolo, mostra una volontà precisa da parte di Alessandro Gherardini di trarre ispirazione da esempi veneti come ad esempio la pittura di Sebastiano Ricci, che già nel decennio precedente aveva incontrato grande favore presso la committenza toscana.

Francesco Freddolini

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Giuseppe Vivoli, Annali di Livorno, 4 voll (Livorno: Giulio Sardi, 1840-1846).
  • Silvia Meloni Trkulja, "L'attività tarda di Alessandro Gherardini sulla costa Tirrenica e un nuovo acquisto delle Gallerie Fiorentine", Antichità viva, XXIV, 1-3 (1985), pp. 75-81.
  • Alessandro Sonetti, Un palchetto a teatro. Committenza artistica a Livorno nel Settecento: gli Huygens, tesi di laurea magistrale, Università di Pisa, Relatrice C.M.Sicca, a.a. 2020-2021.

Alessandro Gherardini

  • A
    Pietà 1723-1726 ca. Olio su tela
    150x100 cm
    Livorno, Chiesa di San Jacopo in Acquaviva
  • B
    Riposo nella fuga in Egitto 1723-1726 ca. Olio su tela
    150x100 cm
    Livorno, Chiesa di San Jacopo in Acquaviva

I due dipinti sono certamente databili alla fase tarda della carriera di Alessandro Gherardini, quando il pittore al termine di una vita itinerante che lo aveva in molte occasioni portato lontano da Firenze, decise di stabilirsi nella città del porto granducale, supportato da mercanti locali e desideroso di conquistare il favore di committenti stranieri. Probabilmente commissionate dal mercante Giovanni Antonio Huygens, come sostenuto da Maria Teresa Lazzarini (Lazzarini 2006, p. 38), i due dipinti mostrano, da una prospettiva squisitamente stilistica, un'attenzione alle qualità pastose del colore che costruisce i panneggi e che crea contrasti molto accesi con gli sfondi foschi di entrambi i dipinti, secondo canoni estetici e tecnici che in virtù di queste caratteristiche si differenziano dalla pittura degli anni più giovanili. In questa prima fase, la pittura del Gherardini -pur sempre attenta alle qualità del colore- si caratterizzava per una ben maggiore luminosità. Questo effetto, pur accentuato dallo stato conservativo attuale dei dipinti, che necessitano di puliture e, come già notato da Silvia Meloni Trkulja, sono stati restaurati troppo sommariamente in passato (Meloni Trkulja 1985, p. 78) fu frutto di una attenta e meditata scelta stilistica da parte del pittore. Proprio Silvia Meloni Trkulja, in uno studio sull'attività tarda di Gherardini, propone una datazione al 1723 (Meloni Trkulja 1985, p. 78), che appare condivisibile anche se forse potrebbe essere considerata con una certa cautela vista la scarsità di sicuri ancoraggi archivistici per gli ultimi anni della carriera di Alessandro Gherardini. I fondi foschi di questi dipinti appaiono perfettamente in linea con le riflessioni caravaggesche di Gherardini in questi anni, testimoniati anche -ancora nel 1723- da un Amorino dormiente che costituiva una variazione sul tema reso celebre dal Merisi e molto caro alla cultura artistica granducale (Meloni Trkulja 1985, p. 78). Accanto a questa evocazione di una sensibilità che rimanda a Caravaggio, entrambi i dipinti -con un approccio marcatamente eclettico- propongono una serie di altre citazioni, o rimandi stilistici ad altri artisti del passato, quasi a voler esibire un repertorio di modelli. Il Cristo morto della Pietà cita esplicitamente quello della Pietà di Annibale Carracci conservata al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli (Inv. Q 363), un dipinto spesso riprodotto in incisione. Proprio un'incisione, in considerazione del ribaltamento del corpo del Cristo nel dipinto di Gherardini, potrebbe essere stata il modello per il pittore fiorentino. Anche l'angelo di sinistra nel Riposo nella Fuga in Egitto, con la testa rivolta verso sinistra e lo sguardo intenso verso il volto dell'altro angelo, sembra -nella postura e nella delicatezza dei tratti somatici, con il naso allungato e gli occhi che si intravedono in un'ombra densa- una riflessione sulla Sant'Anna del cartone di Leonardo da Vinci con Sant'Anna, la Vergine il Bambino e San Giovannino (Londra, National Gallery, Inv. NG 6337). Infine, la figura del San Giuseppe, ancora nel Riposo nella fuga in Egitto, dall'anatomia molto compressa e avvolta in un abbondante panneggio, evoca chiaramente i santi nei pennacchi della cupola di San Giovanni Evangelista a Parma, dipinti da Correggio tra il 1520 e il 1524, attentamente studiati da Gherardini nei primi anni '80 del Seicento (Coltellacci 2000). Queste citazioni letterali, assieme ad espliciti rimandi stilistici, non potevano essere senza significato, ma anzi dovevano essere il frutto di una scelta meditata da parte di un artista che aveva ormai una lunghissima esperienza. Appare quindi plausibile pensare che Gherardini, il cui intento di recarsi a Livorno per sfruttare le reti di relazioni mercantili della città al fine di procurarsi commissioni da parte di mecenati oltramontani, avesse voluto squadernare un repertorio che dimostrasse tanto la sua conoscenza, quanto la sua abilità di imitare maniere, ed eventualmente anche copiare opere per viaggiatori o collezionisti che avevano contatti con Livorno. Già in precedenza aveva tentato di conquistarsi il favore del mercato artistico danese, recandosi alla corte di Federico IV (Meloni Trkulja 1995; Coltellacci 2000), che era stato ospitato a Livorno dallo Huygens e aveva commissionato opere a scultori come Giovanni Baratta. Proprio all'inizio degli anni '20 il pittore fu coinvolto in un processo relativo a quaranta dipinti che egli aveva ricevuto in pegno dal collega Vincenzo Gori, evidentemente con la speranza di venderli, e Francesco Saverio Baldinucci menziona ripetutamente gli interessi di Gherardini verso il mercato della pittura (Meloni Trkulja 1995, p. 81, nota 7). Verso la fine di una carriera tormentata, questi due dipinti sembrano poter suggerire proprio un ultimo tentativo per crearsi uno spazio su una piazza -quella di Livorno- dove il mercato poteva essere fiorente.

Francesco Freddolini

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Stefano Coltellacci, Gherardini, Alessandro, in Dizionario Biografico degli Italiani, 53, Roma 2000, LINK URL, consultato il 11/10/2022.
  • Maria Teresa Lazzarini, L'Oratorio di San Ranieri nella Chiesa di Santa Giulia a Livorno (Livorno: Debatte, 2006), p. 38.
  • Silvia Meloni Trkulja, "L'attività tarda di Alessandro Gherardini sulla costa Tirrenica e un nuovo acquisto delle Gallerie Fiorentine", Antichità viva, XXIV, 1-3 (1985), pp. 75-81.
  • Silvia Meloni Trkulja, "Alessandro Gherardini in Danimarca", in Antichità viva, XXXIV, 5-6 (1995), pp. 70-74

Pandolfo Tidi (?)

  • A
    Sacra Famiglia con i Re Magi 1722-1726 Olio su tela
    400x250 cm circa
    Livorno, chiesa di San Giovanni Gualberto
  • B
    San Felice in Gloria 1722-1726 Olio su tela
    400x250 cm circa
    Livorno, chiesa di San Giovanni Gualberto

Le due grandi tele sembrano appartenere al completamento degli arredi liturgici commissionati al termine dei lavori di ristrutturazione del monastero di san Giovanni Gualberto, conclusi intorno al 1722. La cupola edificata sulla copertura della chiesa era andata nel tempo manifestando gravi segni di cedimento e il fondatore del monastero, padre Colombino Bassi (1660-1732), decise di rimpiazzarla definitivamente con una volta. I lavori furono eseguiti grazie ad una generosa donazione granducale ed alle offerte elargite dal presidio militare di città: con esse anche la facciata della chiesa fu infine terminata, l'orologio per il campanile giunse da Pisa e le cappelle laterali vennero completate con le vetrature degli oculi e le decorazioni a stucco, pronte ad accogliere le tele (ASFI, CRS, 12).

Nel dipinto destinato alla cappella della Natività è rappresentata una Sacra Famiglia con i Re Magi in adorazione del Bambino. In secondo piano si trovano tre angeli musicanti: il primo suona un cornetto, dalla tipica imboccatura laterale; l'angelo al centro suona un traversiere, mentre quello a destra imbraccia un liuto. È verosimilmente dovuto alla logica compositiva dell'insieme il motivo per cui il pittore abbia deciso di invertire la naturale posizione esecutiva di quest'ultimo, immaginando la tastiera dello strumento a destra e la cassa armonica a sinistra. Coerentemente con i pochi cenni contenuti nelle Sacre Scritture (Matteo 2, 1-12), la scena è ambientata nelle vicinanze della porta di una casa ed i tre Magi, che recano i doni, esternano una grande gioia. Fin dall'VIII secolo i tre sapienti, astronomi o studiosi, furono impersonificati con re (Curzel 2000). Successivamente, a partire dal XII-XIII secolo, essi andarono sempre più distinguendosi tanto nella fisionomia, a significare i tre continenti allora conosciuti, quanto nell'età (un giovane, un adulto ed un anziano). I doni dei Re Magi custodiscono una simbologia profonda e complessa, riferita al mistero della duplice natura di Cristo. Ne è testimonianza il più giovane tra loro, Baldassarre, il quale nel dipinto è collocato nella posizione più prossima al Bambino. Tale disposizione iconografica non appare comune nella tradizione pittorica, ma consente al Magio di porgere a Cristo la mirra, la resina aromatica che, per il suo uso nei riti funerari, ricorda la salvezza che porterà con il suo sacrificio.

Nella tela collocata sopra l'altare a lui dedicato è rappresentato invece un San Felice in Gloria, in cui il santo appare circondato da uno stuolo di angeli e cherubini che gli porgono le armi e la palma del martirio. Una reliquia del corpo del santo era conservata in una cripta della chiesa (ASCA, Cass. I, ins. 8); i terremoti ed i bombardamenti della Seconda guerra mondiale hanno tuttavia stravolto l'assetto originario dell'edificio, occultandone le tracce. Per gli stessi motivi andarono perduti anche gli affreschi del presbiterio, di cui sono ricordate le due storie San Giovanni Gualberto perdona il nemico e Il padre di san Giovanni Gualberto che invano lo distoglie dalla vita monastica (ASCA, Misc, 1339).

La tradizione storiografica ha attribuito - pur con qualche contraddizione - le due opere alla stessa mano, quella di Pandolfo Tidi (Vivoli 1846; Piombanti 1873). Un ramo cadetto della famiglia Tidi - variante popolare che andò sostituendo l'originale patronimico Titi - originaria di Borgo Sansepolcro, si trasferì nel secondo quarto del XVII secolo a Livorno, dove avviarono imprese mercantili. Il successo nei commerci consolidò le loro sostanze e ne decretò la rapida ascesa sociale, assicurando loro le maggiori cariche cittadine. Il più noto della stirpe fu il Gonfaloniere Giovan Federigo; erede delle cospicue fortune del ramo materno Mellini, ricoprì un ruolo di grande interesse nella politica e nella coeva società labronica. Egli abitava nella centrale via Ferdinanda, in un edificio confinante con il palazzo di proprietà di Eberhard Brassart allora chiamato "la Città di Colonia" (Sonetti 2019). Dal suo matrimonio con la nobildonna pisana Caterina Upezzinghi nacquero quattro figli: Ferdinando, Pandolfo, Margherita e Orietta Anna Maria. Le due sorelle contrassero a loro volta matrimoni che sarebbero risultati di notevole interesse per la storia della città: Margherita sposò infatti Giovan Pietro Finocchietti, mentre Orietta divenne la consorte di Filippo Guglielmo Huygens. Per oltre un secolo dalla data del loro arrivo a Livorno, i Tidi si erano resi protagonisti delle cronache cittadine, politiche o mondane che fossero, gareggiando con gli Huygens nella committenza di opere d'arte o nell'organizzazione di opere teatrali (Sonetti 2020-2021). Per la storiografia ottocentesca fu dunque Pandolfo di Giovan Federigo (1696-1765), cognato di Filippo Guglielmo Huygens, a donare i due dipinti al monastero vallombrosano di san Giovanni Gualberto della Valle Benedetta. Pittore e scrittore, con la sua Guida per il passeggiero dilettante di pittura, scultura, ed architettura pubblicata nel 1751 è considerato il primo autore di un testo periegetico dedicato alle città di Pisa e Livorno (Titi 1751).

Le differenze stilistiche tra le due opere suggeriscono tuttavia più che un ragionevole dubbio, indicando la necessità di studi più approfonditi.

Alessandro Sonetti

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Pandolfo Titi, Guida per il Passeggiere Dilettante di Pittura, Scultura ed Architettura nella città di Pisa fatta dal Cavalier Pandolfo Titi Nobile della Città di Sansepolcro dedicata all'Eccelsi, ed Illustrissimi Signori Priori, e Magistrato della suddetta Città di Pisa (Lucca: Filippo Maria Benedini, 1751).
  • Giuseppe Vivoli, Annali di Livorno dalla sua origine sino all'anno di Gesù Cristo 1840, Vol. IV, (Livorno: Giulio Sardi, 1846), p. 604.
  • Giuseppe Piombanti, Guida storica ed artistica della Città e dei Contorni di Livorno (Livorno: Marini, 1873), p. 498.
  • Emanuele Curzel, Il Medioevo. Dai Magi ai tre santi re, in Silvano Zucal (a cura di), I Magi (Trento: Pancheri, 2000), pp. 19-26.
  • Alessandro Sonetti, "La Città di Colonia a Livorno," La Nuova Antologia, vol. 623, fasc. 2292 (2019), pp. 230-249.
  • Alessandro Sonetti, Un palchetto a teatro. Committenza artistica a Livorno nel Settecento: gli Huygens, Tesi di Laurea, Relatore professoressa Cinzia Maria Sicca, Corso di Laurea Magistrale in Storia e Forme delle arti visive, dello spettacolo e dei nuovi media, Università di Pisa, Anno Accademico 2020-2021.
  • Alessandro Sonetti, "Mercanti nordeuropei a Livorno tra Sei e Settecento: intorno al Palazzo Brassart," Bollettino Storico Pisano, vol. XC (2021), pp. 88-115.
  • Archivio di Stato di Firenze, Corporazioni Religiose Soppresse dal Governo Francese, 12, c. 24r.
  • Archivio Storico di Camaldoli, Cassetto I, Inserto 8, cc. 2v-5r.
  • Archivio Storico di Camaldoli, Miscellanea composta da lettere, memorie, suppliche 1516-1705, Fascicolo 77, c. 17v.

Autore ignoto

  • Calvario 1697-1702 Legno policromo
    153x135x37 cm (Cristo), 383x182x12,5 ca. (Croce), 185x81x39 ca. (Madonna), 178x89x41,5 ca. cm (San Giovanni Evangelista)
    Livorno, chiesa di San Giovanni Gualberto

Giovan Antonio Huygens (ca. 1646-1714) giunse a Livorno da Colonia intorno al 1677 (Sonetti 2021). Consapevole dell'importanza di una salda integrazione sociale, esercitò sin dagli albori della sua permanenza un ruolo attivo nelle imprese istituzionali, collettive ed economiche cittadine; legato ai Brassart di Colonia ed ai marchesi Feroni di Firenze, inaugurò a tal fine anche una decisa politica di committenza artistica (Sonetti 2020-2021). Le sue sorti si incontrarono nella città d'adozione con quelle di Colombino Bassi (1660-1732), monaco benedettino nato a Genova da famiglia livornese, il quale andava perseguendo presso la corte medicea il progetto di realizzare in Livorno un centro religioso capace di introdurre la riforma vallombrosana (Vasaturo 1994). Nonostante le difficoltà e le notevoli avversità, scartate le ipotesi di costruire ad Artimino o nel Lazzeretto di San Rocco (ASFI, CRS, 12), egli riuscì infine nell'intento di edificare un monastero nei pressi dell'antico romitorio della Sambuca, sulle colline a sudest del porto franco. La prima pietra del complesso fu posta nella primavera del 1692. Costruiti grazie alle cospicue somme elargite dal granduca e da Giovan Antonio Huygens, la chiesa ed il monastero benedettini furono titolati a San Giovanni Gualberto: da allora l'esteso appezzamento di bosco sulla cima del Monte alla Poggia assunse il nome di Valle Benedetta (Vasaturo 1979). La realizzanda via di collegamento con la città correva di fatto lungo il confine tra due estese proprietà, appartenenti ai Lante e ai Tidi, i quali entrarono in causa. Paciere tra le due famiglie, con il supporto dello Huygens, Bassi ottenne come ricompensa il possesso della strada, che fu terminata nel 1694 (Vivoli 1846). In tale occasione il rapporto tra Giovan Antonio Huygens e Giovan Federigo Tidi si rinsaldò; il legame di amicizia tra i due influenti personaggi adottivi di Livorno avrebbe infine condotto all'unione delle due famiglie, attraverso la celebrazione del matrimonio tra due loro congiunti (Sonetti 2019). L'affetto per il luogo da parte dello Huygens era tale, che rilevò un piccolo edificio costruito nelle adiacenze, in località Prati di Santa Lucia, ed edificò per sé una elegante villa, con estesi giardini adorni di sculture e disseminati di alberi da frutto. Dotò la villa di una cappella dedicata alla santa, commissionandone per l'altare ad Alessandro Gherardini la pregevole tela dell'Immacolata Concezione con Dio Padre, san Giovanni e santa Lucia, oggi agli Uffizi (Trkulja 1985).

È dunque a questa altezza cronologica, tra la consacrazione della chiesa avvenuta il 22 luglio 1697, e l'arrivo al porto di Livorno delle galere di Filippo V nel giugno 1702, che l'altare maggiore di San Giovanni Gualberto fu impreziosito da un gruppo statuario ligneo (ASFI, CRS, 12). Esso era composto da tre sculture, rappresentanti una Madonna ed un san Giovanni posti ai piedi di un crocifisso. L'analisi stilistica e le testimonianze storiche (Villani 1846; Piombanti 1873) sembrano in questo caso concordare, indicando per le sculture una attribuzione a distinti autori. Fu Huygens a commissionare le statue dei due dolenti, di grandezza maggiore del naturale ed originariamente dipinte di color bronzo, a Roma, mentre il mirabile Cristo policromo, di proporzioni inferiori, fu acquistato dal Bassi a Firenze attraverso la mediazione di Giovan Battista Foggini. Fu proprio quest'ultimo a suggerire l'amico Antonio Domenico Gabbiani per la coloritura dell'opera il cui autore sembra poter essere individuato in ambito di scuola napoletana (Sonetti 2020-2021).

La committenza Huygens perdurò negli anni. Egli commissionò ad Antonio dalla Porta le sculture modellate in stucco degli angeli recanti le arme Christi, posti sulla parete divisoria del coro della chiesa. Volle inoltre che le sezioni relative agli strumenti della Passione fossero ricoperti di foglia d'oro. Al fine di garantire il mantenimento dei Vallombrosani della piccola comunità, egli aveva acquistato vaste zone boschive dalla valle ai confini della Sambuca. Si adoperò per il loro disboscamento e messa a coltura, i cui proventi furono legati al Monastero e destinati alla celebrazione perpetua di una messa quotidiana (Sonetti 2020-2021). Sulla sommità della collina, ancora con l'amico Abate, costruì alcuni mulini a vento, che avrebbero dovuto supplire le macine ad acqua nei periodi di siccità ed i cui resti sono tutt'oggi visibili. I giardini furono poi ampliati, ed altri mulini edificati, dal nipote ed erede Filippo Guglielmo, come riportò anche Giovanni Targioni Tozzetti (Targioni Tozzetti 1751). L'impegno prodigato dallo Huygens per l'edificazione del monastero e della chiesa di San Giovanni Gualberto è testimoniato dall'iscrizione che si trova nella nave:

D(eo) O(ptimo) M(aximo) /NE MORTEM POST MORTEM INVENIAT /ANTE MORTEM VITAM SUSPIRANS AETERNAM /HAC IN VALLE BENEDICTA /DIVINIS OPTANS REPLERI BENEDICTIONIBUS IN COELIS /TERRAS QUAE A RIVO BATICCI HAC AD POPONIAE /ILLAC AD SAMBUCAE FINES EXTENDUNTUR /EMIT, ISTIQUE ADDIXIT ECCLESIAE /PRO SE, SUISQUE PERPETUIS SUCCESSORIBUS /IO ANTONIUS HUYGENS NOBILIS COLONIENS(is) /UT EX EIUS FRUCTIBUS SINGULIS IN PERPETUIS DIEBUS /SACROSANCTI SACRIFICII SUFFRAGIO FRUATUR /A(nno) D(omini) M. DC. IC. DIE XIV. A(p)RILIS /TESTE ROGATO PETRO HIERO(nimus) GANTELMO I. V. D. /QUAS DEINDE TE(e)RRAS QUA SAMBUCAM SPECTANT/ IN ALIAS LIMO(n)CINIJ VERSUS ACT(a) PUB(lica) VERTIT /HOC ANNO M. DCC. III.

Alessandro Sonetti

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Giovanni Targioni Tozzetti, Relazioni d'alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana per osservare le produzioni naturali, e gli antichi monumenti di essa, 6 voll. (Firenze: Stamperia Imperiale, 1751-1754), vol. II pp. 157-159.
  • Giuseppe Vivoli, Annali di Livorno dalla sua origine sino all'anno di Gesù Cristo 1840, 4 voll., (Livorno: Giulio Sardi, 1846), vol. IV, p. 577.
  • Giuseppe Piombanti, Guida storica ed artistica della Città e dei Contorni di Livorno (Livorno: Marini, 1873), pp. 497-498.
  • Nicola Vasaturo, "21 aprile 1692: "chiameremo questo luogo Valle Benedetta, e così sarà per sempre"," La Canaviglia, IV (1979), 3, pp. 120-125.
  • Silvia Meloni Trkulja, "L'attività tarda di Alessandro Gherardini sulla costa tirrenica e un nuovo acquisto delle Gallerie fiorentine," Antichità Viva, XXIV (1985), 1-3, pp. 77-79.
  • Nicola Vasaturo, Vallombrosa. L'Abbazia e la Congregazione. Note storiche (Vallombrosa Firenze: edizioni vallombrosane, 1994), pp. 178-179.
  • Alessandro Sonetti, "La Città di Colonia a Livorno," La Nuova Antologia, vol. 623, fasc. 2292 (2019), pp. 230-249.
  • Alessandro Sonetti, Un palchetto a teatro. Committenza artistica a Livorno nel Settecento: gli Huygens, Tesi di Laurea, Relatore professoressa Cinzia Maria Sicca, Corso di Laurea Magistrale in Storia e Forme delle arti visive, dello spettacolo e dei nuovi media, Università di Pisa, Anno Accademico 2020-2021.
  • Alessandro Sonetti, "Mercanti nordeuropei a Livorno tra Sei e Settecento: intorno al Palazzo Brassart," Bollettino Storico Pisano, vol. XC (2021), pp. 88-115.
  • Archivio di Stato di Firenze, Corporazioni Religiose Soppresse dal Governo Francese, 12, cc. 24r, 37v, 38r-39v.

Tommaso Gherardini

  • Festa in mare 1766 Olio su tela
    117x235 cm
    Inv. 001902
    Livorno, Musei Civici

Nel maggio 1766, pochi mesi dopo aver preso possesso del Granducato di Toscana, si tenne la prima visita ufficiale di Pietro Leopoldo a Livorno. L'occasione era delle più importanti: infatti dalla morte di Gian Gastone de' Medici (1737) la Toscana, pur essendo retta da Francesco Stefano di Lorena, era stata sottoposta ad un Governo di Reggenza che di fatto si era sostituito al granduca, trattenuto a Vienna dalla ben più onerosa carica di imperatore del Sacro Romano Impero.

Per accogliere degnamente il nuovo sovrano nel porto toscano e sollecitare attorno ad esso il massimo consenso popolare, il governatore di Livorno, Filippo Bourbon del Monte (1708-1780), organizzò con il magistrato comunale e con il corpo delle nazioni attive a Livorno un nutrito programma di festeggiamenti. Ogni nazione manifestò la volontà di concorrere alla festa. In particolar modo gli Inglesi chiesero di organizzare il gioco del calcio, gli Ebrei programmarono un palio di cavalli ed i Francesi una corsa a quattro cocchi; tutte queste celebrazioni si svolsero nella piazza d'Arme alias piazza Grande. L'unica eccezione fu costituita dal grande palio marinaro sontuosamente organizzato dalla nazione Olandese con "una festa al molo" che si svolse il 21 maggio.

Questa veduta fa parte di un dittico realizzato da Tommaso Gherardini (1715-1797) e, come evocato dal titolo, rappresenta proprio la "festa in mare" organizzata dalla nazione Olandese alemanna. La committenza della festa - oltre ad essere ampiamente esplicitata nell'incisione di Giuseppe Maria Terreni derivata da questo dipinto - è ben evocata dalla presenza delle molte bandiere olandesi ammainate ai vascelli posti nella fascia destra del dipinto e soprattutto dai colori dell'asta del palo - bianco, rosso e azzurro - su cui la vedetta doveva arrampicarsi per raggiungere il vessillo (costituito per l'appunto da una bandiera olandese).

Il dipinto vuole infatti cogliere il culmine della competizione: ovvero l'attimo in cui, come illustrato da Giuseppe Aubert nel Diario del soggiorno che passarono in questa città le Loro Altezze Pietro Leopoldo e Maria Luisa di Borbone, al termine della corsa le quattro "fregate" stavano per raggiungere i "cavi della grand'asta dalla cui sommità dovea togliersi la banderuola per ottener la vittoria" (Aubert 1766) e mentre una staffetta sta per raggiungere la banderuola, un'altra, drammaticamente, cade in mare dalla sommità dell'asta.

Per il Gherardini le feste per la venuta di Pietro Leopoldo costituirono dunque l'occasione per realizzare un dittico - alla base delle incisioni elaborate da Terreni - composto da questo dipinto e da una veduta del palio equestre, riconoscibile in quello organizzato dalla nazione ebraica in Piazza Grande (Livorno, Musei Civici), andando così a contrapporre la "festa di piazza" alla "festa in mare".

Tuttavia, il pittore, che nel 1765 aveva concluso una apprezzatissima Trasfigurazione per la tribuna del Duomo di Livorno (Gandini 1832), sembrò soprattutto interessato a fissare l'immagine di una città colta nel momento in cui toccava l'apice della propria fortuna urbanistica; fortuna che già Charles de Brosses, meno di trenta anni prima, aveva ben sintetizzato attraverso la fortunata metafora della "tabacchiera".

Gherardini avviava così una tradizione che sarà particolarmente gradita a Pietro Leopoldo, in cui il vedutismo urbano si mescolava assai felicemente alla scena di genere. Negli anni a venire ne dovevano nascere alcune serie di dipinti particolarmente equilibrati - si pensi a quelli commissionati dallo stesso Pietro Leopoldo a Giuseppe Maria Terreni per il Gioco del Ponte pisano del 1785 o a quelli realizzati da Giuseppe Manetti nel 1791 per le feste fiorentine tenute in occasione delle nozze di Ferdinando III - utili sì ad immortalare eventi pubblici svolti sotto la benigna protezione granducale, ma soprattutto a fissare la vita e la forma delle città.

Manuel Rossi

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Giuseppe Aubert, Diario del soggiorno che passarono in questa città le Loro Altezze Pietro Leopoldo e Maria Luisa di Borbone, (Livorno: Marco Coltellini, 1766), pp. 10-13.
  • Francesco Gandini, Viaggi in Italia, vol. V (Cremona: Tip. De Micheli, 1832), p. 330.
  • Jean Pierre Filippini, Il porto di Livorno e la Toscana (1676-1814), (Napoli: Edizioni scientifiche italiane, 1998), p. 175.
  • Livorno: la costruzione di un'immagine: i palazzi di città, a cura di C. Cantini, D. Matteoni, A. Restucci (Firenze: Silvana editoriale, 1999)
  • Stefano Mazzoni, Teatri e opera nel Settecento: Livorno, in Theatre spaces for music in 18th-century Europe a cura di Iskrena Yordanova, Giuseppina Raggi, Maria Ida Biggi (Vienna: Hollitzer Verlag, 2020), pp. 321-386.

Giuseppe Maria Terreni

  • Prospetto del gran loggiato fatto erigere sulla sponda del mare dalla Nazione Olandese 1766 Incisione in rame all'acquaforte
    430x730 mm
    Cat. n. 10
    Livorno, Fondazione Livorno

Pur discostandosene in parte l'incisione di Terreni (1739-1811) prende le mosse dal dipinto realizzato nel 1766 da Tommaso Gherardini rappresentante la "festa in mare" organizzata dalla Nazione Olandese-Alemanna. Tuttavia, a differenza del dipinto di Gherardini, in cui il committente della festa è evocato attraverso la presenza delle bandiere e dei colori della nazione olandese, nell'incisione Terreni poté giovarsi dell'ampia didascalia posta nella fascia inferiore del foglio. Sappiamo così che l'acquaforte rappresenta il "Loggiato fatto preparare sulla sponda del molo di Livorno dalla Nazione Olandese […] in occasione di una corsa di fregate data dalla detta Nazione". La committenza olandese è inoltre rilevabile anche attraverso lo stemma degli Orange-Nassau, Statolder delle Province Unite, che campeggia al centro della dedica posta sotto la veduta.

Esattamente come nel dipinto di Gherardini la gara è rappresentata nel momento in cui le due staffette si stanno arrampicando alla sommità del pennone per strappare la bandiera e quindi aggiudicarsi il palio. Tuttavia, al di là della competizione, ciò che colpisce è la sontuosità della festa vista nel suo insieme. Lo spazio è ripartito in due sezioni: a sinistra lo specchio d'acqua delimitato dal molo in cui si svolge il palio, a destra le molte imbarcazioni quasi accalcate l'una sull'altra per ammirare la gara; infine, sullo sfondo, le mura della città di Livorno e soprattutto il sontuoso palco allestito dalla nazione olandese.

Quest'ultimo era il fulcro del grande festino e costituiva non solo un vero capolavoro di ingegneria - con una scalinata che, fissata attraverso pali conficcati per 10 braccia nel terreno, scendeva fino al mare - ma soprattutto una grande allegoria politica. Infatti, come ci ricorda Giuseppe Aubert (Aubert 1766), il ricco apparato decorativo era stato allestito con l'obiettivo di esaltare le glorie della nuova Casa Granducale rinserrando i rapporti con la nazione olandese, promotrice e finanziatrice dell'evento. Così le statue, collocate sul fronte del palco e lungo la scala che conduceva all'acqua, erano "tutte di rilievo e imitanti il marmo statuario" e rappresentavano "due Virtù con lo stemma olandese, mentre lungo la scala vi erano le statue di Orfeo, Tritone, Tifi e Apollo. Davanti alle colonne della loggia si osservavano Diana, Siringa, Dafne, Galatea, la Vigilanza e la Nautica più altre quattro Ninfe del mar Toscano" mentre le "pitture" rappresentavano l'"arme di Casa Reale condotta dall'Immortalità per mezzo delle virtù della Gloria" inframezzata da allegorie come la Fortezza e della Prudenza alternate a sequenze più complesse come la "Forza che opprimeva l'Invidia e l'Inganno […] un Genio che presentava le quattro Arti Liberali: poco distante la Poesia additava Dante e Petrarca, a sinistra si vedea l'Abbondanza e la Giustizia" il tutto culminante nella "Gloria Marittima della Nazione Olandese" (Aubert 1766).

D'altro canto, la stampa consente di soffermarci una volta di più sul successo di Livorno anche come vero e proprio modello urbano. Un modello sempre più diffuso attraverso un vastissimo numero di incisioni che, soprattutto a partire dalla seconda metà del Settecento, iniziarono a circolare in tutta Europa facendone una delle città più rappresentate del Granducato. Tuttavia, con l'andare del tempo l'immagine della darsena con i celebri mori del Tacca non era più sufficiente ad evocare la grande città che era sorta e che continuava ad allargarsi alle spalle del porto. Così se nel 1731, in occasione dello sbarco a Livorno dell'infante Carlo di Borbone, per evocare il porto toscano era sufficiente ritrarre il sovrano con una galera sullo sfondo (Tosi 2019), trenta anni dopo, per la venuta di Pietro Leopoldo, si sentì l'esigenza di produrre intere serie di dipinti e soprattutto di incisioni a testimoniare la reazione di una intera città e di una intera società urbana.

Infatti, come appare evidente nell'incisione di Terreni, la funzione di questi eventi civici, pur essendo incentrati sul sovrano, non si limitavano ad esaltare la figura del Granduca - di fatto irriconoscibile nella calca. Al contrario l'attenzione è focalizzata sulla città ed i suoi abitanti che vengono rappresentati mentre festeggiano intorno al sovrano. Tale impressione è per altro rafforzata proprio dal confronto con l'opera di Gherardini che, contrariamente a Terreni, nella sezione sinistra del dipinto mette ben in evidenza i bastioni, quasi eliminando la folla che invece è particolarmente ben accentuata nell'incisione. Così, prima ancora che Pietro Leopoldo o il palio, il vero protagonista della veduta è proprio il "gran concorso di folla" che accalcata sui palchi, sulla poppa delle navi o assiepata lungo il molo diventa parte attiva delle gare con una partecipazione vivace e rumorosa.

Manuel Rossi

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Giuseppe Aubert, Diario del soggiorno che passarono in questa città le Loro Altezze Pietro Leopoldo e Maria Luisa di Borbone, (Livorno: Marco Coltellini, 1766), pp. 10-13.
  • Livorno e il quartiere della Venezia fra '500 e '700: il reale, l'immaginario, l'effimero: catalogo della mostra (Livorno 1987) (Livorno: Debatte 1987), pp. 12-13.
  • Piero Frati, Livorno nelle antiche stampe: piante e vedute della città dalla fine del secolo XVI alla fine del secolo XIX (Livorno: Cassa di Risparmio di Livorno, 2000), n. 87.

Dario Giacomelli

  • Chiesa protestante Olandese-Alemanna eretta a Livorno (1862-1864) 1882 Stampa su carta da litografia
    36,5x52,2 cm
    Collezione Privata

Il tempio della Congregazione Olandese-Alemanna concretizzò l'espressione più insigne della volontà collettiva dei protestanti di origine nordeuropea, vissuti nella città medicea nel corso dei 270 anni trascorsi dall'emanazione delle leggi Livornine. La sua realizzazione, tuttavia, fu possibile solamente all'indomani della proclamazione del Regno d'Italia, quando la libertà di culto venne estesa come diritto a tutti i cittadini. Fino ad allora, per quasi un secolo, la componente acattolica della Nazione Olandese-Alemanna si era riunita nella cappella situata all'interno di un fabbricato di via del Consiglio (Piombanti 1873). Le premesse per la realizzazione di un più degno edificio per il culto sono da rintracciarsi nel clima, fervente di idee costruttive e di vigorose realizzazioni, del periodo inaugurato sin dal 1824 con l'ascesa alla guida del Granducato di Toscana di Leopoldo II. Tale esuberanza progettuale - certamente dettata dal progressivo declinare dell'investimento dei grandi capitali nell'agricoltura per l'ascesa dei settori finanziario, manifatturiero ed industriale - manifestava altresì un secondo proposito: la ricerca da parte dell'alta borghesia labronica di una propria visibilità (Cresti 1987). Essa andò in tal modo plasmando una nuova immagine urbana.

Sulla spinta dell'acclamato successo della Passeggiata degli Acquedotti di Pasquale Poccianti, tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta dell'Ottocento furono infatti costruite a Livorno opere imponenti: le monumentali cisterne, i teatri, le estese piazze, i palazzi privati e le chiese per la nuova area urbana, determinata dell'ampliamento del perimetro del porto franco del 1834 (Baldini 2002). In questo periodo emerse la figura dell'architetto Gaetano Gherardi, personalità cardine attorno alla quale si formò una intera generazione di professionisti livornesi. Sin dal 1825 egli era stato nominato Direttore della Scuola di Architettura, Ornato ed Agrimensura, una istituzione gratuita fondata da Carlo Michon con sede nel palazzo della Pia Casa del Refugio della Venezia (Gherardi 1880). Se da un lato l'intento filantropico di Michon era diretto a favorire l'assistenza e l'istruzione popolare, dall'altro mirava ad arginare l'influenza culturale di matrice fiorentina (Cresti 1987). Sotto la quarantennale direzione di Gherardi, alla scuola michoniana si formarono professionisti quali Angiolo della Valle, Luigi del Moro, Giuseppe Cappellini, Cesare Bartolena, Guglielmo Mattolini, Ottavio Paradossi e Giovan Battista Picchianti (Cresti-Zangheri 1978).

Negli stessi anni, la crescente volontà di qualificare la Nazione Olandese-Alemanna con una connotazione più sentitamente religiosa raggiunse il suo culmine (Koehl-Krebs 2005). Nel 1822 gli statuti furono rivisti nell'esercizio del culto luterano e calvinista, e a discapito del suo originario aspetto nazionale, assunse infine il nome di Congregazione. Uno dei primi atti significativi della Congregazione così riformata fu la realizzazione del nuovo cimitero di via Erbosa, adiacente a quello greco-ortodosso nell'attuale via Mastacchi (Panessa 2004; Panessa-Del Nista 2004; Panessa-Lazzerini 2006). Tuttavia, il crescente numero di iscritti - a metà del XIX secolo ormai prevalentemente livornesi di origine tedesca e svizzera - aveva reso difficoltose le assemblee presso la disagevole cappella di via del Consiglio, e la Congregazione si risolse alla costruzione di un nuovo edificio per il culto. L'architetto selezionato per il progetto fu il livornese Dario Giacomelli (1819-1897). Formatosi alla Accademia di Belle Arti di Firenze, era stato nominato da Gherardi insegnante presso la scuola michoniana di Architettura. La figura di Giacomelli è stata approfondita solo in tempi molto recenti; ad oggi, la realizzazione del tempio Olandese-Alemanno risulta essere il suo primo distintivo lavoro (Cresti-Zangheri 1978). Sebbene la committenza fosse originariamente orientata verso uno stile "greco" (Panessa-Del Nista 2002), Giacomelli propose un inedito edificio di foggia neomedievale. Egli si distinse in tal modo dal ricorrente stile neoclassico comune alla scuola michoniana, e si orientò verso un'architettura romantica, "etica", certamente sensibile a quanto andava dibattendosi nel contesto internazionale.

I riferimenti per il progetto di Giacomelli non sono semplici da individuare. Il confronto più immediato risulta quello con l'altra grande comunità protestante a Livorno, i Britannici. Mentre la chiesa anglicana di San Giorgio, pensata nei primi anni '40 da Angiolo Della Valle, aveva riproposto un rassicurante stile neoclassico nel solco delle realizzazioni di Gherardi, al contrario il tempio della comunità presbiteriana scozzese, adiacente al primo cimitero inglese ed inaugurato nel 1849, rappresentò a Livorno un originario esempio di edificio neogotico (Trotta 1997; Panessa 2006). Il Granduca ne aveva tuttavia consentito la realizzazione a condizione che fosse celato dietro l'aspetto di un'architettura non religiosa.

Tra il 1862 ed il 1864 il tempio della Congregazione Olandese-Alemanna fu infine realizzato (Panessa 2006). Costruito sulle lottizzazioni ottenute dalla rettificazione del Fosso Reale, esso riflette sulla città il suo asciutto e misurato rigore. Il complesso era costituito dal corpo dell'edificio per il culto e dai volumi della sacrestia, della sala per le adunanze e della scuola della comunità con l'abitazione per il maestro al piano superiore, questi ultimi successivamente demoliti. La spinta discensionale delle falde della copertura, raccolta da una teoria di archetti ogivali pensili, sormontati da una cornice modanata con una decorazione a cerchi, è raccolta e bilanciata dalle paraste polilobate che delimitano il fronte a capanna. Posti originariamente sulle loro sommità, due pinnacoli cuspidati sottolineavano la spinta delle direttrici verticali del fronte, perfettamente simmetrico rispetto all'asse centrale, rinforzata da un terzo pinnacolo situato sul vertice del frontone, infine rimossi dopo la Seconda guerra mondiale. Lo schema è ripetuto con proporzioni più acute nel protiro, la cui ghimberga è retta da un doppio gruppo di tre colonne. Un arcone a sesto acuto modella delicatamente il fronte e sottolinea, attraverso un leggero sfalsamento di piani, il protiro sormontato dal rosone centrale. Sullo stesso asse orizzontale del rosone si aprono i due oculi laterali, che sormontano le bifore. Una "etica" sobrietà profusa anche all'interno, a nave unica per accogliere le celebrazioni liturgiche ma anche laiche, con una particolare attenzione per la straordinaria sensibilità che la Congregazione riformata riservava alla musica.

L'edificio decretò la notorietà del progettista. Nel solco del gusto eclettico allora diffuso, egli andò successivamente realizzando la lanterna della cupola della chiesa di Santa Caterina e l'ampliamento del cimitero della Misericordia. Al suo interno progettò alcune cappelle private, tra cui spicca per grazia quella commissionata dai conti Bastogi. Nella frazione di Quercianella edificò inoltre la cappella della Sacra Famiglia dell'Ospizio Marino, che sembra riprendere in toni semplificati la facciata del tempio Olandese-Alemanno. Membro Onorario della Reale Accademia di Belle Arti di Firenze dal 1884, e successivamente di quella di Bologna, Cavaliere Ufficiale della Corona d'Italia, Dario Giacomelli morì nel 1897 (Cresti-Zangheri 1978). Il progetto originale stilato nel 1860 è oggi conservato in collezione privata. I disegni del progetto originale, stilato nel 1860, sono oggi conservati in collezione privata. La litografia a stampa qui presentata è tratta dalla rivista fiorentina Ricordi di architettura: raccolti autografati e pubblicati da una società di architetti fiorentini del 1882 (Bini 1990).

Alessandro Sonetti

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Giuseppe Piombanti, Guida storica ed artistica della città e dei contorni di Livorno (Livorno: Marini, 1873), pp. 359-360.
  • Gaetano Gherardi, Cenni sulla Scuola Michoniana di Livorno (Livorno: Vannini e Figlio, 1880).
  • Carlo Cresti, Luigi Zangheri, Architetti e ingegneri nella Toscana dell'Ottocento (Firenze: Uniedit, 1978), pp. 113-114.
  • Carlo Cresti, La Toscana dei Lorena: politica del territorio e architettura (Firenze: Banca toscana; Cinisello Balsamo: A. Pizzi, 1987), pp. 187-212.
  • Marco Bini, I ricordi di architettura: disegni e progetti alla fine del XIX secolo: appendice documentaria, schedatura dei disegni (Firenze: Alinea, 1990).
  • Giampaolo Trotta, Luoghi di culto non cattolici nella Toscana dell'Ottocento (Firenze: Becocci/Scala, 1997), p. 78.
  • Federico Baldini, La Deputazione per le Opere Pubbliche, Utilità e Ornato di Livorno, in Alessandro Gherardesca: architetto toscano del romanticismo: Pisa, 1777-1852, a cura di Gabriele Morolli (Pisa: ETS, 2002), pp. 129-150.
  • Giangiacomo Panessa, Mauro Del Nista (a cura di), La Congregazione Olandese-Alemanna: intercultura e protestantesimo nella Livorno delle nazioni (Livorno: Debatte, 2002), pp. 105-127.
  • Giangiacomo Panessa, Mauro Del Nista (a cura di), I 'giardini' della congregazione Olandese-Alemanna: memoria e fede nella Livorno delle Nazioni (Livorno: Debatte, 2004), pp. 14-34.
  • Hélène Koehl-Krebs, "Petite histoire d'une communauté protestante interculturelle: Livourne au XIXe siècle," Positions luthériennes, 53/1 (2005), pp. 81-97.
  • Giangiacomo Panessa, La Livorno delle Nazioni: i luoghi della preghiera (Livorno: Debatte, 2006), pp. 49-51.
  • Giangiacomo Panessa, Maria Teresa Lazzarini, La Livorno delle Nazioni: i luoghi della memoria (Livorno: Debatte, 2006), p. 9.
mercanti-e-artisti-olandesi-alemanni-a-livorno-1-1

Mercanti e artisti Olandesi Alemanni a Livorno

Adam de Coster

(attribuito a)

  • Doppio ritratto di due scultori (François Duquesnoy e Georg Petel?) 1620-1623 Olio su tela
    114x95 cm
    Inv. KMSsp810
    Copenhagen, Statens Museum for Kunst

Il dipinto rappresenta due giovani uomini, colti in un dialogo muto all'interno di uno spazio chiuso che potrebbe identificarsi con una bottega. Infatti, il numero di sculture che occupano la scena non può dirsi casuale e va a indicare, assai probabilmente, la professione svolta da entrambi i personaggi ritratti. La fiamma di una lucerna posta al centro della scena è la sola fonte luminosa a rischiarare l'ambiente. Il personaggio a sinistra, seduto al tavolo, indossa una cappa foderata di ermellino sopra una veste rossa e tiene con la mano destra un frammento di una piccola scultura mutila rappresentante un nudo femminile. Poco oltre la sua mano, e in bilico sul tavolo, c'è un astuccio metallico con strumenti per disegnare e anche i fogli con schizzi al di sotto del suo braccio alludono alla pratica disegnativa. Altre due sculture sono visibili sul tavolo. Una, all'estrema destra, fa da quinta al dipinto; il suo colore ambrato e la crepa che percorre la base e la caviglia del personaggio stante la rivelano quale un bozzetto piuttosto che un pezzo antico. In secondo piano, una terza scultura, rappresentante un putto dalla spalla in su, giace rovesciato sul tavolo. Il secondo personaggio, apparentemente più giovane del primo e in piedi, è al centro della scena. Indossa un saio verde -un abito da lavoro- e mantiene saldamente con la mano destra un nudo tridimensionale; la colorazione bruna di questa scultura, diversa dalle altre sul tavolo, potrebbe alludere alla lega metallica di cui è costituita o a una patina. Appena visibili, all'estrema destra del quadro, sono le dita della mano sinistra dell'uomo in piedi, poggiate sul nudo stante. Lo scambio di sguardi tra i due ritrattati e l'interno buio, rischiarato solo da una fiamma che rivela la diversa consistenza delle superfici su cui si rifrange, suggeriscono che quella rappresentata possa essere una sorta di riflessione sulla pratica e la percezione della scultura.

La polimatericità e la possibilità di individuare alcune delle statue rappresentate nel dipinto permetterebbero di riconoscere i due personaggi effigiati come gli scultori François Duquesnoy, a sinistra, e Georg Petel, a destra. Nato a Bruxelles nel 1597, Duquesnoy arrivò a Roma nel 1618 e, legatosi al pittore francese Nicolas Poussin, entrò ben presto nella cerchia di Cassiano dal Pozzo (Lingo 2007). La successiva collaborazione con Gian Lorenzo Bernini al baldacchino di San Pietro valse al Fiammingo la commissione del colossale Sant'Andrea per una delle nicchie dei pilastri della crociera della basilica di San Pietro. Altre importanti commissioni romane e le raccomandazioni di Poussin assicurarono a Duquesnoy l'invito a corte del cardinale Richelieu e l'offerta di diventare scultore del re di Francia. Sfortunatamente, portatosi a Livorno per imbarcarsi, lo scultore vi morì nel 1643 e fu sepolto nella cappella della nazione olandese-alamanna nella chiesa della Madonna di Livorno, come attestava una lapide che si trovava presso questo altare (Frattarelli Fischer-Lazzarini 2015, p. 39) e come ricorda la lapide recentemente apposta sull'edificio adiacente alla chiesa. Georg Petel (1601-1635) fu, invece, uno scultore bavarese, specializzato nella lavorazione dell'avorio e attivo anche a Roma all'inizio degli anni Venti del Seicento, dove potrebbe aver conosciuto Duquesnoy.

Nessuno dei ritratti in cui è stato proposto di riconoscere Duquesnoy consente di avvalorare l'identificazione degli effigiati nel doppio ritratto di Copenaghen. Infatti, è stato proposto di riconoscere il Fiammingo sia in un ritratto di Charles Le Brun conservato alla Residenzgalerie di Salisburgo (fig. 1) sia in quello di Antoon van Dyck del Museo di Belle Arti di Bruxelles (fig. 2, qui riprodotto in incisione). Tuttavia, nel primo è identificato anche Nicholas Le Brun, padre del pittore e anche lui, come Duquesnoy, uno scultore, mentre diverse incongruenze renderebbero pure complicata l'identificazione del nostro scultore nel ritratto olandese. Sono, invece, diverse delle sculture rappresentate a indirizzarci verso le opere di Duquesnoy e dei suoi contemporanei (Olsen 1961, pp. 88-89). La testa (e poco più) del putto in marmo al centro della scena è proprio tra i soggetti più frequenti della sua produzione, mentre la figurina sostenuta da Petel e dalla posa apparentemente scomposta è stata riconosciuta come un San Sebastiano in bronzo conosciuto in varie versioni (Koester 2000, p. 89 n. 20). Viceversa, la scultura sulla destra sembra appartenere a una generazione precedente e potrebbe dirsi un modello in terracotta per il San Sebastiano bronzeo di Alessandro Vittoria oggi al Metropolitan Museum di New York (Koester 2000, pp. 87-88).

Il quadro è attribuito a Adam de Coster (1586 ca. -1643), pittore fiammingo ed esponente di punta dei caravaggeschi di Anversa. Nonostante i pochi appigli documentari, è probabile che il pittore fosse in Italia all'inizio degli anni Venti del Seicento e che possa riconoscersi in lui l'"Adamo fiammingo" residente a Roma e in casa con altri pittori stranieri nella Pasqua 1623 (Hoogewerff 1942, p. 92 e Borgogelli 2020). Dagli esiti pittorici affini al suo connazionale più noto, Gherardo delle Notti, non solo la sua presenza nell'Urbe potrebbe accordarsi con la datazione del presente ritratto, ma anche la composizione del dipinto, due mezze figure disposte attorno a un tavolo e illuminate dalla luce di una candela, corrisponde ai più tipici prodotti di Coster. Infine, la trasformazione di una "cena allegra" in un Freundschaftsbild o "quadro d'amicizia", rifacendosi a una tradizione risalente al Cinquecento, mostrerebbe sia i riferimenti colti del pittore sia la sua versatilità in diversi generi pittorici.

Vincenzo Sorrentino

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Godefridus Joannes Hoogewerff, Nederlandsche kunstenaars te Rome (1600-1725): uittreksels uit de parochiale archivien ('S-Gravenhage: Algemeene Landsdrukkerij, 1942).
  • Harald Olsen, Italian Paintings and Sculpture in Denmark (Copenaghen: Munksgaard, 1961).
  • Olaf Koester, Flemish Paintings 1600-1800 (Copenaghen: Statens Museum for Kunst, 2000).
  • Estelle Lingo, François Duquesnoy and the Greek Ideal (New Haven: Yale University Press, 2007).
  • Lucia Frattarelli-Fischer, Maria Teresa Lazzarini, Chiese e luoghi di culto a Livorno dal Medioevo a oggi (Ospedaletto: Pacini, 2015)
  • Tommaso Borgogelli, "Un nuovo dipinto e un nuovo soggetto per Adam de Coster," Paragone.Arte 71, no. 841-843 (marzo-maggio 2020), pp. 58-64.

Michiel Sweerts

  • Anthonij de Bordes e il suo staffiere 1648 ca. Olio su tela
    50,7x66,6 cm
    Inv. 2012.13.1
    Iscrizioni: sulla sella, in primo piano a destra, il monogramma "MS".
    Provenienza: Anthonij de Bordes; per via ereditaria alla figlia Maria de Bordes (1655-1686) e da lei al marito Daniël Deutz (1644-1707) nel cui inventario, stilato il 5 novembre 1708, è descritto, senza indicazione dell'autore, come "een stuck daar den ouden Heer Anthonij de Bordes de laarsen werdt uijtgetrocken"; per via ereditaria a C.J. de Bordes, Velp and Bussum, nel 1907; C.A. Van Walré de Bordes, L'Aja; attraverso il mercante S. Nystad, L'Aja (Nystad Oude Kunst | Archives Directory for the History of Collecting in America (frick.org)) venduto nel 1984 a Arthur e Arlene Elkind, New Rochelle; acquistato il 9 febbraio 2012 dalla National Gallery of Art.
    Washington, D.C., National Gallery of Art

Anthonij de Bordes (1615-1678) è tra i pochi membri della Nazione Olandese Alemanna identificabile con certezza in un ritratto di grandissima qualità, la cui storia permette di precisare meglio la rete di contatti del ritrattato.

Originario di Amsterdam, de Bordes era un mercante di pannilini attivo in Italia alla fine degli anni quaranta del Seicento. Il suo nome è registrato in data 30 novembre 1648 nel Libro rosso della Comunità Olandese Alemanna di Livorno (Castignoli 2001, p. 86), città dove già si trovava almeno dal 18 settembre dello stesso anno, come testimonia la lettera inviata in quella data agli Stati Generali olandesi richiedendo sostegno in una disputa con gli eredi di "Anthonie Goutier" (Heeringa 1910, p. 113). In realtà i documenti livornesi non conservano traccia di un personaggio con questo nome, ma il 30 novembre 1647 il Libro rosso registra tra i membri della Nazione un Antonio Gontier (Castignoli 2001, p. 86) con il quale è plausibile identificare il socio in affari di de Bordes. È quindi possibile ipotizzare che, una volta giunto a Livorno, de Bordes abbia dovuto far fronte alla morte del suo socio e agli strascichi di un non meglio specificato contenzioso con gli eredi, che sembrerebbe aver giustificato la sua presenza in città fino al 1649/50. Gontier dovette avere un figlio, anche lui di nome Antonio, definito "mercante fiamengo a Livorno" da Louis Elzevir (1604-1670) in una lettera ad Athanasius Kircher del 4 novembre 1650. Kircher avrebbe dovuto inviare nel porto franco alcune copie della sua Musurgia universalis sive ars magna consoni et dissoni in X libros digesta (Roma: Francesco Corbelletti, 1650) che Gontier avrebbe provveduto a spedire a Leida (Begein 2014, pp. 424-25).

Nel corso di questi anni sembra più che probabile che de Bordes si sia recato anche a Roma, da solo o in compagnia dei tre fratelli Deutz, Jean, Jeronimous e Joseph, rampolli di una facoltosa famiglia di mercanti di Amsterdam specializzata nel commercio di tessuti serici, a cui aggiunsero il monopolio della vendita del mercurio delle miniere imperiali, ma anche il commercio di spezie, zucchero, riso, carta, libri, opere d'arte nonché gli investimenti nella Compagnia Olandese delle Indie Orientali. Tra il 1646 e il 1654 i tre fratelli intrapresero in Francia, Italia e Spagna viaggi d'istruzione e di affari di diversa lunghezza, nel corso dei quali, come testimonia il registro dei conti della madre, Elisabeth Coymans (Bikker 1998, p. 307, 311), acquistarono dipinti e sculture per le collezioni di famiglia. A Roma il principale referente artistico dei fratelli Deutz era il pittore Michiel Sweerts (1618-1664), nato a Bruxelles in una famiglia di mercanti cattolici attivi nel commercio della seta ed altri tessili. La sua formazione è ignota, ma pur nell'assenza di documenti la critica è concorde nel supporre che si sia formato nell'ambito degli arazzieri brussellesi dove circolavano disegni dei più affermati artisti italiani, fiamminghi e neerlandesi (Bikker 1998, Yeager-Crasselt 2015). Nel 1646 il suo nome ("Michele Suarssi") emerge a Roma nei registri degli Stati delle Anime della parrocchia di Santa Maria del Popolo, dove abitava in una casa di via Margutta con il pittore anversese Heyndric Ferdoche o Verdonc. Vi rimarrà fino al 1651 (Hoogewerff 1916, p. 110), con nuovi coinquilini (un "Pietro pittore francese", e un "Andrea procuratore"). I più importanti committenti romani di Sweerts furono il Cardinale Flavio Chigi (1631-93) e il Principe Camillo Pamphili (1622-66); nella contabilità di quest'ultimo sono registrati pagamenti al pittore fino a tutto il 1652, anno a cui risale La Partita a Dama (Amsterdam, Rijksmuseum) firmata "Michael Sweerts/ fecit añ 1652/ Roma" (Jansen e Sutton 2001, p. 124). Poco dopo il pittore dovette lasciare l'Italia e a partire dal 1655 è documentato a Bruxelles dove aprì un'accademia di pittura per la formazione di artisti da impiegare nelle arazzerie. Nel corso degli anni seguenti Sweerts divenne un membro laico della Société des Missions Etrangères e nel gennaio 1662, dopo una sosta ad Amsterdam di circa un anno, si imbarcò a Marsiglia insieme ad altri missionari diretti in Palestina. I suoi successivi movimenti non sono noti nel dettaglio ma morì a Goa nel 1664 (Bakker 2017, p. 4).

Gli inventari post mortem dei fratelli Deutz documentano circa quindici opere di Sweerts, tra cui tre loro ritratti spediti da Roma nel 1650 (Amsterdam, Rijksmuseum e Dallas, Texas, Dallas Museum of Art), interni di studi di pittura e scultura, una perduta Fuga in Egitto, le Sette Opere di Misericordia (Amsterdam, Rijksmuseum) e alcuni autoritratti del pittore. I rapporti con i suoi committenti furono di piena fiducia, tanto da ricevere nel 1651 da Jean Deutz la procura a "domandare, esigere, havere et ricevere dalla Dogana di Roma, et qualunque SS.ri Doganieri d'essa […] pronta restitutione di pezze sette saglie di Leyden qui chiamase Segnorile" (Kronig 1910, p. 48). Ciò fa supporre che Sweerts possa anche aver agito come agente dei Deutz, selezionando per loro opere di pittura e scultura da immettere sul mercato olandese. Le spedizioni passavano per Livorno dove venivano gestite da Giacomo Ablin, un altro membro della Nazione Olandese Alemanna.

Il ritratto di de Bordes lo rappresenta in veste di viaggiatore seduto nella stanza di una locanda dove sembra giunto da poco, come suggeriscono gli speroni e la sella abbandonati per terra, mentre un giovane staffiere lo aiuta a rimuovere gli stivali impolverati. La spada e il mantello sono appoggiati su un tavolo ricoperto da un tappeto turco, mentre un cane riposa tra la sedia e il tavolo. La porta aperta sullo sfondo rivela, nella luce del crepuscolo, un cortile con fontana e un obelisco, quest'ultimo una evidente allusione alla città di Roma che ricorre frequentemente nelle opere di altri pittori neerlandesi amici di Sweerts ed affiliati ai Bentveughels, come Johannes Lingelbach, Bartholomeus Breenbergh e Jacobus Storck.

Cinzia Maria Sicca

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Willem Martin, "Michiel Sweerts als schilder. Proeve van een Biografie en een Catalogus van zijn schilderijen," Oud Holland 25 (1907), pp. 146-147.
  • Klaas Heeringa, Bronnen tot de geschiedenis van den Levantschen handel, 4 vol., ('s-Gravenhage: M. Nijhoff, 1910).
  • Joseph Otto Kronig, "Uber einige Bilder von Michiel Sweerts," Zeitschrift fur bildende Kunst, n.s. 21 (1910), pp. 47-48.
  • Godefridus Joannes Hoogewerff, "Michiel Sweerts te Rome", Oud-Holland, 34 (1916), p. 109-110.
  • Guido M.C. Jansen, "A Family Tradition Confirmed: Sweerts's Portrait of Anthonij de Bordes," The Hoogsteder Mercury 12 (1991), pp. 37-41.
  • Jonathan Bikker, "The Deutz Brothers, Italian Paintings and Michiel Sweerts: New Information from Elisabeth Coymans's Journael," Simiolus 26 (1998), pp. 277-311.
  • Paolo Castignoli, Lucia Frattarelli Fisher, Maria Lia Papi, Livorno dagli archivi alla città: studi di storia, (Livorno: Belforte, 2001).
  • Guido Jansen e Peter C. Sutton (a cura di), Michael Sweerts (1618-1664), catalogo della mostra (Amsterdam, Rijksmuseum; San Francisco, Fine Arts Museums of San Francisco; Hartford, Wadsworth Atheneum Museum of Art), (Zwolle: Waanders Publishers, 2001).
  • Paul Begeyn S.J., Jesuit Books in the Dutch Republic and its Generality Lands 1567-1733. A Bibliography, (Leiden-Boston: Brill, 2014).
  • Lara Yeager-Crasselt, Michael Sweerts (1618-1664): Shaping the Artist and the Academy in Rome and Brussels (Pictura Nova XXI), (Turnhout:Brepols, 2015).
  • Piet Bakker, "Michael Sweerts" (2017), in The Leiden Collection Catalogue, 3rd ed. Edited by Arthur K. Wheelock Jr. and Lara Yeager-Crasselt. New York, 2020-. LINK URL (ultimo accesso 26 luglio 2022).

Jacobus Storck il Vecchio

(attribuito a)

  • Il porto di Livorno 1674 Penna e inchiostro nero, acquerello grigio su carta vergata
    183x186 mm
    Inv. 2947Z
    Iscrizioni: sull'edificio, in primo piano a destra, "J. Storck 1674". Frankfurt am Mein, Graphische Sammlung, Staedel Museum

Nel corso del Seicento il monumento dei Quattro Mori divenne un simbolo dei Medici e di Livorno conosciuto in tutta Europa. A testimonianza di ciò, la sua presenza in numerose opere di artisti stranieri, come in questo disegno raffigurante una veduta di porto attribuito al pittore olandese Jacobus Storck (1641-1693 ca.).

Jacobus faceva parte di una famiglia di pittori operanti ad Amsterdam e specializzati in raffigurazioni di marine (Vuyk 1935; Van Eeghen 1953; Van Luttervelt 1959). Nella stessa città Jacobus lavorò nella bottega del fratello Abraham (1644-1708) che, nonostante la minore età, lo superò in fama, divenendo ben presto il membro più illustre della sua famiglia (Houbraken 1721; van Eeghen 1953). Entrambi influenzati dalle opere di Jan Baptist Weenix, dei van de Velde padre e figlio, e di Ludoolf Bakhuizen, i fratelli Storck collaborarono spesso alle medesime tele, pratica che rende talvolta difficile distinguere le loro mani. Inoltre, la maggior notorietà di Abraham rispetto al fratello poté influenzare la scelta di apporre unicamente la sua firma sulle opere, una strategia di vendita abbastanza comune nelle botteghe artistiche olandesi del Seicento (Munnig Schmidt 2005). Questo disegno, a lungo attribuito ad Abraham, è una rara testimonianza grafica di Jacobus, a lui riconducibile tanto per l'attenzione maggiore rivolta alle figure e all'architettura quanto per l'iniziale del suo nome ben visibile nell'angolo in basso a destra (Haak 1984; Munnig Schmidt 2005; van Sasse van Ysselt 2011).

Intorno al 1670 Jacobus, forse seguito da Abraham, partì per un viaggio lungo il Reno, operando in varie città tedesche. I disegni eseguiti nel corso di tale viaggio furono usati da entrambi i fratelli Storck come base per la creazione di dipinti negli anni successivi (Munnig Schmidt 2005). Dal momento che non si conosce nessuno spostamento verso l'Italia dei due artisti, è probabile che il disegno derivi dalla visione di altre fonti grafiche. A ben vedere, numerosi particolari - come la porzione di fortificazione sulla destra - sembrano basarsi sulla serie di incisioni di Stefano Della Bella dedicate al porto toscano, ristampate ad Amsterdam dal famoso editore e mercante Clement de Jonghe (Rijksmuseum, inv. RP-P-H-H-56). Traspare, dunque, un generale interesse della società olandese verso Livorno, città divenuta un soggetto artistico diffuso in epoca moderna. Avere una raffigurazione del porto livornese a decorare la propria casa o il proprio banco commerciale poteva simboleggiare un contatto economico o familiare con la città. Le figure in primo piano, abbigliate in modo diverso a seconda della provenienza e indaffarate nella vendita e nel trasporto delle merci da caricare sulle navi, ben rappresentano la multiculturalità che si poteva respirare nel porto toscano, così come il florido commercio olandese che prendeva piede in quella piazza. Il disegno doveva probabilmente servire per un successivo dipinto ad olio su tela, ad oggi sconosciuto.

Silvia Papini

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Arnold Houbraken, De groote schouburgh der Nederlantsche konstschilders en schilderessen, vol. III (Amsterdam, 1721), pp. 320-321.
  • Jadwiga Vuyk, "Johannes of Jacobus Storck of Sturck?," Oud Holland, vol. 52 (1935), pp. 121-126.
  • Isabella Henriette van Eeghen, "De schildersfamilie Sturck, Storck of Sturcknenburch," Oud Holland, Vol. 68, No. 4 (1953), pp. 216-223.
  • Remmet van Luttervelt, "Een schilderij van Johannes en Abrahm Storck," Oud Holland, vol. 74 (1959), pp. 19-29.
  • Bob Haak (a cura di), The Golden Age. Dutch Painters of the Seventeenth Century (New York: Harry N. Abrams Inc., 1984), p. 481.
  • Emma Munnig Schmidt, "Jacob Storck (1641- ca. 1693), kunstschilder, en de Vecht," Jaarboekje Niftarlake (2005), pp. 23-36.
  • Dorin van Sasse van Ysselt, "Jacobus Storck. Italian harbour with the statue of Ferdinand de' Medici in Livorno […]", RKD, LINK URL, consultato il 26/09/22.
  • Anonimo da Stefano della Bella, Schepen en sloepen in de haven van Livorno, 1655, incisione, inv. RP-P-H-H-56. Amsterdam, Rijksmuseum: LINK URL, consultato il 26/09/22.

Johannes Lingelbach

  • Veduta di un porto meridionale con mercanti e schiavi seduti 1660-1670 ca. Olio su tela
    49,5x57 cm
    Inv. 0232NMK
    Nivaa, Nivaagaard Malerisamling

Nato a Francoforte sul Meno ma trasferitosi con la famiglia ad Amsterdam, all'età di vent'anni Johannes Lingelbach (1622-1674) intraprese un viaggio verso l'Europa meridionale che influenzò decisamente il carattere delle sue opere successive. Sappiamo che prima di giungere a Roma nel 1644 - dove divenne conosciuto operando nel gruppo dei Bamboccianti - Lingelbach sostò sia a Genova che a Livorno (Houbraken 1719; Busiri Vici 1950; Kren 1982; Porzio e van der Sman 2018). Per i pittori nordici in viaggio fermarsi nei principali porti mediterranei era utile per ottenere informazioni dalla madre patria (possibili grazie alle reti mercantili), per stringere nuovi contatti e per guadagnare, con lavori di veloce esecuzione, il denaro necessario per proseguire verso Roma. A Livorno, i membri della Congregazione Olandese-Alemanna si facevano abitualmente carico di aiutare i connazionali di passaggio, sia per quanto riguardava l'ospitalità che per ottenere commissioni (Paliaga 2006). Tale viaggio servì a Lingelbach anche per trovare nuove fonti di ispirazione: tornato ad Amsterdam nel 1653, i numerosi disegni eseguiti durante la sosta livornese furono rielaborati all'interno di diverse composizioni pittoriche, come in questa veduta portuale.

Come nel caso del disegno di Storck, anche questo dipinto non intende offrire una visione topograficamente fedele di Livorno, quanto piuttosto evocarne l'idea tramite il monumento dei Quattro Mori. Il monumento è qui incluso sulla destra in forma modificata rispetto alla realtà, con l'assenza della statua di Ferdinando I e l'unica presenza di due mori incatenati attorno al piedistallo, simbolo della vittoria del Gran Duca contro i corsari barbareschi. Lingelbach dà poca importanza alle navi e al caricamento delle merci. L'attenzione del pittore viene invece posta su un gruppo di figure in primo piano, divise in due gruppi: a sinistra tre schiavi (come dimostrano le catene ai piedi), a destra due mercanti, seduti su merci imballate e pronte per il trasporto. In entrambi i gruppi sono presenti figure di diversa nazionalità, intente a guardarsi e a parlare tra di loro. Un evidente chiasmo tra liberi e prigionieri viene evidenziato dal rapporto tra questi personaggi e quelli alle loro spalle, ossia i due mori incatenati del monumento e, opposti a loro, due mercanti occidentali che guardano verso il mare. L'apparente scenario calmo del porto, con la nave sullo sfondo, potrebbe quindi nascondere una riflessione sui rischi del lavoro mercantile, in cui uomini di qualunque nazionalità e fede religiosa potevano facilmente diventare prede ed essere catturati (Bono 2016). La statua che si intravede non sarebbe dunque una scelta casuale: il nesso tra scalo portuale, vita mercantile e schiavitù doveva risultare immediatamente chiaro all'osservatore seicentesco, sia olandese che italiano.

Per vicinanza compositiva, l'opera può essere messa in relazione al disegno firmato del 1665 all'Università di Leiden (inv. PK-T-AW-1189) o alla tela del 1667 oggi presso il Ringling Museum of Art, Sarasota (inv. SN272). In questo caso, tuttavia, gli schiavi ed i mercanti non sono inclusi entro una più ampia vivacità portuale ma rappresentano l'unico fulcro dell'opera.

Silvia Papini

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Andrea Busiri Vici, "Fantasie romane di Johannes Lingelbach," Studi romani, 7 (1950), pp. 42-53.
  • Thomas Kren, 'Jan Lingelbach in Rome', The J. Paul Getty Museum Journal 10 (1982), p. 45-62.
  • David A. Levine e Ekkehard Mai (a cura di), I Bamboccianti. Niederländische Malerrebellen im Rom des Barock, catalogo della mostra di Köln, Walllraf-Richartz-Museum der Stadt, 28- Agosto 1991 - 17 novembre 1991 e di Utrecht, Centraal Museum der Stadt, 6 dicembre 1991 - 9 febbraio 1992 (Milano: Electa, 1991), p. 212.
  • Franco Paliaga, "Pietro Ciafferi pittore di marine" in Fantastiche vedute. La pittura di capriccio in Toscana dal Ciafferi al Poli (2006).
  • Salvatore Bono, Schiavi: una storia mediterranea (XVI-XIX secolo) (Bologna: Il Mulino, 2016).
  • Giuseppe Porzio e Gert Jan van der Sman, "La quadreria Vandeneynden," in Antonio Ernesto Denunzio (a cura di), Rubens, van Dyck, Ribera. La collezione di un principe. Catalogo della mostra di Napoli, Gallerie d'Italia, Palazzo Zevallos Stigliano, 6 dicembre 2018-7 aprile 2019 (Milano: Silvana Editore, 2018), pp. 51-63.
  • Johannes Lingelbach, Harbour scene, 1665. Drawings (Print Room), Leiden University Libraries. LINK URL [26/09/2022].
  • Johannes Lingelbach, Harbor Scene, 1667, olio su tela. Sarasota (Florida), John and Mable Ringling Museum. LINK URL [26/09/2022].

Ludolf Backhuizen

  • Veduta del porto di Livorno 1653-1708 Penna, inchiostro bruno e acquarello grigio
    85x155 mm
    Inv. 1836,0811.15
    Provenienza: John Sheepshanks (1787-1863) fino al 1836, quando William e George Smith curano la vendita al Museo della sua collezione di disegni olandesi del XVII secolo. Londra, British Museum, Department of Prints and Drawings

Ludolf Backhuizen (1630-1708), o Backhuysen, nacque nella città tedesca di Emden dove il padre, Gerhard, esercitava la professione di scrivano, professione alla quale avviò anche il figlio. Nel 1649 la famiglia si trasferì ad Amsterdam e qui Ludolf ottenne un posto di scrivano nel banco di Guillielmo II Bartolotti van den Heuven (1602-1658), anch'egli proveniente da Emden, e figlio di Willem van den Heuvel che aveva trasformato il suo nome in Guillielmo I e assunto il cognome Bartolotti, condizione necessaria per poter ereditare i beni dello zio, Giovanni Battista Bartolotti, ricco mercante bolognese attivo sulla piazza di Amburgo. I Bartolotti van den Heuvel avevano investito grosse somme, personali e in accomandita, nella Compagnia Olandese delle Indie Orientali (VOC) e nella Compagnia delle Indie Occidentali (WIC); in compagnia con Jan Calandrini vendevano grani ed altre mercanzia a Londra, Venezia, Genova, Livorno, Napoli, Ancona e sulla costa del nord Africa (Ekama 2018, pp. 196-201). Questi forti legami con l'Italia, costanti attraverso tutto il XVII secolo, potrebbero aver avuto conseguenze per Backhuizen, di cui tuttavia non sono documentati viaggi in Italia, e la cui formazione artistica è poco chiara e tardiva: i suoi primi dipinti ad olio risalgono infatti al 1658 e l'iscrizione alla corporazione dei pittori addirittura al 1663. Nel 1650, quando ancora lavorava per i Bartolotti, e successivamente nel 1657 e nel 1660 i documenti ne parlano come l'autore di disegni a penna e di grisaglie. Non ci sono documenti relativi all'apprendistato di Backhuizen ma Arnold Houbracken (Houbracken 1753, II, pp. 237) afferma che studiò con Allart van Everdingen (1621 - 1675) e poi con Hendrick Dubbels (1620/1621-1676?).

Questo disegno è esemplificativo non solo della grande qualità della grafica di Backhuizen - particolarmente evidente nella luminosità e profondità del cielo - ma anche della fortuna che l'immagine di Livorno aveva sul mercato olandese. Il monumento sulla destra del disegno, con i quattro schiavi agli angoli della base, è infatti immediatamente riconoscibile come il monumento a Ferdinando I, così come i movimenti degli schiavi che trasportano balle di mercanzie appartengono alla consolidata iconografia della città. Il mancato riconoscimento dei simboli di Livorno e il fatto che il British Museum conserva anche altri due disegni (Inv. 1836.0811.14 e 1836.0811.36) dell'artista, raffiguranti un Trionfo di Nettuno e la città di Amsterdam sullo sfondo, ha spinto i curatori del museo a ritenere che anche il gruppo sulla destra di questo disegno sia da interpretare come un trionfo di divinità marine. In realtà è rappresentata una scialuppa e molti uomini in acqua che cercano di raggiungere la banchina, probabilmente in fuga da una nave colpita da un colpo di cannone. Questo insolito elemento narrativo suggerisce la possibilità che il disegno sia una sintetica rappresentazione della famosa battaglia combattuta il 14 marzo 1653 nelle acque antistanti la città, e che i due vascelli visibili circondati dal fumo siano parte della squadra inglese rimasta bloccata all'interno del porto.

Cinzia Maria Sicca

Riferimenti bibliografici e documentari:

Otto Marseus van Schrieck

(ambito di)

  • Testa di Medusa 1650 ca. Olio su tavola
    49x74 cm
    Inv.1890, n. 1479
    Firenze, Gallerie degli Uffizi

Al margine di un'ambientazione boschiva, la testa della Gorgone Medusa viene raffigurata sul suolo, dopo essere stata recisa da Perseo. Il volto è circondato dalle serpi ormai morenti che ne popolavano la chioma mentre intorno fanno la loro comparsa varie specie animali associate nel Seicento alla morte (Jorink 2014). Di chiaro ambito nordico, dalla fine del Settecento l'opera iniziò ad essere erroneamente attribuita a Leonardo da Vinci (Ricci 1908; Conticelli 2008; Giordani 2008). Come invece chiarisce l'inventario della Guardaroba Generale del 1668, essa entrò nella collezione del Granduca Ferdinando II come lascito testamentario del suo cameriere segreto, il nobile fiammingo Hippolyte de Vicq di Bruges, morto l'anno precedente (Conticelli 2008). In tale occasione il quadro veniva descritto come opera di fiammingo, ornato da una cortina di taffetà cangiante e da una cornice di ebano liscia (ASFi, Guardaroba Medicea, 750, c. 117). Nel corso dei decenni l'opera dovette passare nelle collezioni di diversi membri della dinastia medicea; la ritroviamo infatti nel 1713 presso gli appartamenti del gran principe Ferdinando de' Medici, dove non aveva più la cortina di taffetà disponendo ancora della cornice originale (ASFi, GM, 1222, c. 9v). Arrivata in seguito agli Uffizi, l'inventario del 1753 la descrive con la cornice riccamente decorata che ha ancora oggi, non più di ebano ma di legno dorato e intagliato (Biblioteca degli Uffizi, ms. 95, c. 25).

In nessuno dei documenti sopracitati è menzionato il nome dell'artista. Vicina alle raffigurazioni di medesimo soggetto create da Rubens (tra cui quella al Kunsthistorisches Museum di Vienna), la particolare ambientazione e l'inclusione di animali legati alla generazione ex putri (alla cui confutazione stava lavorando il medico di corte Francesco Redi tra 1667 e 1668) hanno fatto accostare questa tavola alle opere di Otto Marseus van Schrieck (1613-1678), artista attento alle nuove teorie scientifiche (Bodart 1977). Marseus ebbe modo di lavorare in Italia, probabilmente anche a Firenze, nei decenni centrali del secolo. Le sue opere furono estremamente apprezzate dai Medici, in particolar modo dal figlio di Ferdinando II, il futuro granduca Cosimo III, che conobbe Otto e ne visitò lo studio ad Amsterdam nel 1667 (Veen 1987). Proprio nella casa di Otto Marseus, alla sua morte, si trovava un dipinto raffigurante una testa di Medusa, indice di come il soggetto non fu a lui sconosciuto (Hildebrecht 2004).

L'opera potrebbe essere arrivata in Toscana grazie al commercio artistico intrapreso dai membri della Congregazione Olandese-Alemanna di Livorno. Ben conosciuta è l'attività in tal senso del mercante franco-fiammingo Giacomo Ablin (a volte trascritto come "Ablein"), per mezzo del quale numerose opere italiane arrivarono nella collezione Deutz di Amsterdam e altre olandesi giunsero in Italia, come l'Aristotele con busto di Omero di Rembrandt, oggi al Metropolitan Museum, originariamente nella collezione del principe Antonio Ruffo di Messina (Bikker 1998; Gozzano 2014). Ablin collaborava con vari mercanti d'arte residenti ad Amsterdam, tra cui il ricco Cornelis Ghisbertsz van Goor, il cui figlio lavorò per un certo periodo a Livorno - forse proprio presso Ablin - e fece parte della Congregazione Olandese-Alemanna (Castignoli 1979; Gozzano 2014). Alla sua morte nel 1662, Ablin aveva in casa un quadro raffigurante la testa di Medusa, con cornice di ebano, un soggetto di per sé raro che dovrebbe essere associato all'entrata in collezione medicea di un quadro similare appena cinque anni dopo (ASFi, Notarile Moderno 17178, cc. 74r-76v). Più in generale, quest'opera oggi agli Uffizi, simboleggia i molteplici contatti culturali e commerciali che nel Seicento unirono le Fiandre e la Toscana.

Silvia Papini

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Archivio di Stato di Firenze, Guardaroba Medicea 750, c. 117.
  • Archivio di Stato di Firenze, Notarile Moderno 17178, cc. 74r-76v.
  • Archivio di Stato di Livorno, Governatore Auditore, Atti Civili 207, ins. 73, cc. 816r-836r.
  • Corrado Ricci, "Le Meduse degli Uffizi," Vita d'Arte, n. 1 (1908), pp. 1-10.
  • Didier Bodart (a cura di), Rubens e la pittura fiamminga del Seicento (Firenze: Centro Di, 1977), pp. 306-307.
  • Paolo Castignoli, "Il libro rosso della comunità olandese-alemanna a Livorno (1622-1911)," La Canaviglia, Vol. IV (1979), pp. 170-175.
  • Henk Thijs van Veen, "Cosimo de' Medici's reis naar de Republiek in een nieuw perspectief," Bijdragen en medelingen betreffende de geschiedenis der Nederlanden, vol. 102 (1987), pp. 44-52.
  • Jonathan Bikker, "The Deutz Brothers, Italian Paintings and Michiel Sweerts: New Information from Elisabeth Coymans's "Journael"," Simiolus: Netherlands Quarterly for the History of Art, vol. 26, n. 4 (1998), pp. 277-311.
  • Douglas R. Hildebrecht, Otto Marseus van Schrieck (1619/20-1678) and the Nature Piece. Art, Science, Religion and the Seventeenth-Century Pursuit of Natural Knowledge, tesi di laurea University of Michigan, 2004.
  • Valentina Conticelli, "Medusa: significato e mito alla corte dei Medici," in Medusa. Il mito, l'antico e i Medici (Roma: Ministero per i beni e le attività culturali, 2008), pp. 27-47.
  • Simone Giordani, "Pittore fiammingo, Testa di Medusa," in Medusa. Il mito, l'antico e i Medici (Roma: Ministero per i beni e le attività culturali, 2008), pp. 66-67.
  • Natalia Gozzano, "From Flanders to Sicily: The Network of Flemish Dealers in Italy and the International (Art) Market in the Seventeenth Century," in Neil De Marchi e Sophie Raux (a cura di), Moving Pictures. Intra-European Trade in Images, 16th-18th Centuries, Studies in European Urban History (1100-1800), n. 34 (Turnhout: Brepols Publishers, 2014), pp. 151-187.
  • Eric Jorink, "Snakes, Fungi and Insects. Otto Marseus van Schrieck, Johannes Swammerdam and the Theory of Spontaneous Generation," in Zoology in Early Modern Culture: Intersections of Science, Theology, Philology, and Political and Religious Education (Leiden: Brill, 2014), pp. 197-234.

Nicola van Houbraken

  • A
    Natura morta con funghi 1690-1723 ca. Olio su tela
    130x142 cm
    Inv. 469
    Livorno, Musei Civici
  • B
    Natura morta con cane 1690-1723 ca. Olio su tela
    130x142 cm
    Inv. 468
    Livorno, Musei Civici
  • C
    Natura morta con pappagallo 1690-1723 ca. Olio su tela
    130x142 cm
    Inv. 920
    Livorno, Musei Civici

Queste tre tele di Nicola van Houbraken (1668-1723) conservate presso il Museo della Città di Livorno esibiscono un repertorio di piante, frutti e animali, in cui specie locali vengono unite ad altre esotiche (Lazzarini 1993). L'attenzione quasi scientifica al dato naturale e la ricchezza della composizione ben si uniforma al gusto toscano del periodo e, in particolar modo, alle collezioni di dipinti naturalistici di casa Medici (Lazzarini 1990). In tali raffigurazioni è ben visibile l'abbondanza di beni che era possibile desiderare ed ottenere in epoca moderna, specialmente vivendo in un centro portuale come Livorno.

È grazie a questa apertura internazionale che il porto divenne la casa di Nicola van Houbraken, pittore amato dai Medici e dalle famiglie della nobiltà fiorentina. Nato a Messina dal pittore fiammingo Hector van Houbraken e da Giulia Maffei, in seguito alla rivolta antispagnola che sconvolse la città siciliana nel 1674, Nicola ed i genitori si trasferirono a Livorno (Lazzarini 1993). La scelta del porto toscano come nuova residenza dovette basarsi sulla presenza di mercanti nordici e sui solidi e duraturi legami stabiliti tra Granducato e Fiandre (Negri Arnoldi 1968; Gozzano 2014). Nel corso della sua lunga carriera Nicola Van Houbraken non lasciò mai il porto, inviando da lì i suoi quadri in vari luoghi d'Italia e d'Europa (Gori Sassoli 2006).

Il catalogo delle opere a lui attribuite dimostra l'eclettismo stilistico di questo artista che riuscì sempre a coniugare in modo innovativo caratteri italiani ad influenze nordiche, con risultati che ben si addicevano alla multiculturalità livornese. Accanto ad opere di ispirazione olandese, come i sottoboschi alla Otto Marseus van Schrieck, troviamo in queste tele una dimensione maggiormente toscana, che richiama a tratti lo stile di Bartolomeo Bimbi. Tuttavia, alcune caratteristiche rimandano alla tradizione pittorica oltramontana. La pianta di origine asiatica dell'Amaranthus Tricolor, ad esempio, inclusa da Nicola nel vaso centrale della Natura morta con Pappagallo, era stata uno dei soggetti preferiti di Otto Marseus e, più in generale, la troviamo in numerosi ritratti di illustri botanici olandesi ad indicare la loro abilità nel coltivare rare piante esotiche (Hildebrecht 2004). Ad accumunarlo con Otto Marseus fu anche la vicinanza al mondo della ricerca naturalistica: per trovare nuovi soggetti da includere nelle sue tele Nicola van Houbraken sfruttò non solo il continuo arrivo di naturalia nel porto ma, a partire dagli anni '90, egli iniziò anche a frequentare la bottega di un celebre naturalista livornese, lo speziale Giacinto Cestoni, allievo di Francesco Redi (Papini 2022).

Anche da un punto di vista tecnico, l'utilizzo di due metodi di preparazione della tela diversi sottolinea la predisposizione internazionale di questo artista di seconda generazione, in grado di attingere da un vasto repertorio tecnico-pittorico a seconda dell'esigenza. Per la Natura morta con cagnolino è stata infatti usata una tela di lino a trama sottile, preparata a ricevere il colore da una prima stesura di bolo rosso, preparato utile da sfruttare nelle successive sovrapposizioni pittoriche. Nelle altre due nature morte, l'artista optò invece per l'utilizzo di una tela di canapa, caratterizzata da una trama più larga, a cui appose (o fece apporre) un'imprimitura alla "toscana", utilizzando gesso e colla (Lazzarini 1990).

Donate alle collezioni civiche nel 1896, non si conosce la provenienza delle tre tele, sicuramente create assieme ed appartenenti ad una stessa collezione, come dimostrano le medesime misure delle tele e l'identica cornice coeva (Lazzarini 1993). In ambito livornese, le maggiori raccolte artistiche erano possedute da mercanti stranieri, categoria a cui sembra necessario dover pensare per una commissione di tale spessore. Tra le figure di spicco verso cui è possibile orientarci troviamo il console della Congregazione Olandese-Alemanna del quale è attestata l'assidua committenza a van Houbraken nel primo decennio del Settecento, oppure il mercante tedesco Paul Lochner, primo console svedese del Mediterraneo e grande collezionista di opere d'arte. Non ultimo da prendere in considerazione, il gruppo di ricchi mercanti originari di Colonia tra i quali troviamo Giovanni Antonio Huygens ed Eberhard Brassart, autori tra la fine del Seicento e l'inizio Settecento di importanti commissioni artistiche (Sonetti 2019; Sonetti 2021).

Silvia Papini

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Negri Arnoldi, "I Cinque Sensi di Caccamo e l'attività siciliana di Giovanni van Houbracken," Bollettino d'arte, II-III (1968), pp. 138-144.
  • Maria Teresa Lazzarini, "Scheda N. 2. Natura morta con pappagallo," in Dal restauro al museo. Opere delle Collezioni Civiche per la storia della Città (Pontedera: Bandecchi & Vivaldi, 1990), pp. 14-15.
  • Maria Teresa Lazzarini, "Nicola van Houbraken pittore in Livorno," Nuovi Studi Livornesi, Vol. I (1993), pp. 89-105.
  • Douglas R. Hildebrecht, Otto Marseus van Schrieck (1619/20-1678) and the Nature Piece. Art, Science, Religion and the Seventeenth-Century Pursuit of Natural Knowledge, tesi di laurea University of Michigan, 2004.
  • Mario Gori Sassoli, "Per il catalogo di Nicola van Houbraken: aggiunte e considerazioni," Paragone Arte 65-66 (2006), pp. 78-99.
  • Natalia Gozzano, "From Flanders to Sicily: The Network of Flemish Dealers in Italy and the International (Art) Market in the Seventeenth Century," in Neil De Marchi e Sophie Raux (a cura di), Moving Pictures. Intra-European Trade in Images, 16th-18th Centuries, Studies in European Urban History (1100-1800), n. 34 (Turnhout: Brepols Publishers, 2014), pp. 151-187.
  • Alessandro Sonetti, "La Città di Colonia a Livorno," La Nuova Antologia, vol. 623, fasc. 2292 (2019), pp. 230-249.
  • Alessandro Sonetti, "Mercanti nordeuropei a Livorno tra Sei e Settecento: intorno al Palazzo Brassart," Bollettino Storico Pisano vol. XC (2021), pp. 88-115.
  • Silvia Papini, "Breeding and Depicting Chameleons between the Court of Louis XIV and the Port of Livorno," in Art and Nature (Ljubljana: University of Ljubljana Press, 2022), pp. 139-156.

Johann Wilhelm Baur

  • Veduta del Palazzo del Granduca di Firenze a Livorno (Lusthof zu Livorno des Großherzogs von Florenz) 1630-1637 Penna, inchiostro e acquarello bruno, tracce di matita rossa su carta vergata
    150x223 mm
    Inv. 1366.
    Frankfurt am Mein, Graphische Sammlung, Staedel Museum

Nato a Strasburgo, Johann Wilhelm Baur o Bouwer (1607-1642) fu secondo Houbracken allievo del miniaturista Friederick Brentel (Houbracken 1753, pp. 332-333). Nel 1630 Baur intraprese un viaggio in Italia diretto verso Roma dove, secondo le fonti (Houbracken 1753, pp. 333 e Baldinucci 1846, IV, pp. 525-526), "fu ricevuto" da Paolo Giordano Orsini II, Duca di Bracciano. A Roma l'artista frequentò il gruppo dei Bentveughels ma non praticò, per quanto ci è dato sapere, la pittura realista tipica di questi pittori. Si specializzò, invece, in acquerelli di follie architettoniche in prospettiva, e in vedute di giardini che furono ripetutamente tradotti in incisione. È il caso di questo disegno da cui fu tratta l'incisione di Israel Silvestre (1621-1691) pubblicata a Parigi da Henriet, e ripubblicata numerose volte anche in epoche successive da stampatori italiani e olandesi.

Il disegno è un importante documento visivo di uno dei luoghi più iconici della Livorno seicentesca, il palazzo Granducale, distrutto durante la seconda guerra mondiale e costruito per volontà di Ferdinando I de' Medici su disegno di Antonio Cantagallina a partire dal 1605. L'edificio, costruito presso il Porticciolo dei Genovesi, fu ingrandito nel 1629 su disegno di Giovan Battista Santi. Baur, quindi, lo raffigura nell'arco di tempo del suo soggiorno italiano fissandone l'immagine molto precocemente e determinando il punto di vista adottato anche da successivi autori.

Cinzia Maria Sicca

Riferimenti bibliografici e documentari:

Benedetto Vincenzo (Benedetto Felice) De Greyss

  • Autoritratto 1758 Penna e inchiostro nero su carta applicata a supporto ligneo
    56x43 cm
    Inv. 1890, 1933
    Iscrizioni: "Fr. Benedictus Vin./ De Greyss Ord. Pred/ Theologus, patria Li/bernensis, origine Gernma/ nus ab IMPERATORE CAESARE/ FRANCISCO LOTHARINGICO/ Pio Fe lice, Agusto tabulis pic/tis, signis, anaglypitis, quae in/ regio cimeliarchio Florentiae/ asservantur calamo delinean/ dis Praeprositus suae se ip sum/ manu effinxit anno sa/lutis 1758". A pennello e inchiostro. Firenze, Galleria degli Uffizi, Depositi

Nel suo autoritratto Benedetto Vincenzo De Greyss (Livorno, 1 settembre 1714-Venezia, 15 aprile 1759), al secolo Benedetto Felice, si rappresenta contro un semplice sfondo neutro e con l'abito dell'ordine domenicano, vestito assieme al fratello (Antonino Fortunato nella religione) il 29 gennaio 1730 (Marchese 1879, p. 507). Con la mano destra sollevata il frate esibisce un'appuntita penna di corvo, strumento del "tocco in penna", tecnica di disegno a inchiostro da lui portata a estrema perfezione e conseguentemente scelta anche per l'esecuzione della sua effigie. Proprio l'abilità del religioso in questa specialità grafica, che permetteva una minuziosa rappresentazione di ogni soggetto con ampia varietà tonale e sofisticate variazioni chiaroscurali anche in piccolo e piccolissimo formato, avrebbe indotto il granduca Francesco Stefano di Lorena ad affidargli, nel gennaio del 1749 (Marchese 1879, p. 507; Muscillo 2019, p. 164), il compito di rappresentare l'allestimento complessivo dei dipinti e delle statue nella Galleria degli Uffizi attraverso accurate tavole ortogonali e prospettiche in penna e inchiostro (Heikamp 1969; Id. 1983, part. pp. 478-80; Barocchi 1982, pp. 1446-7; Barocchi - Gaeta Bertelà 1986; Bocci Pacini - Petrone 1994, p. 401; Fileti Mazza - Tomasello 2008, p. 17; Incerpi 2011, pp. 37-43; Muscillo 2019; Santucci - Ruggeri 2022, part. pp. 341-2). Il prestigioso incarico è menzionato nell'iscrizione presente sul foglietto retto con la mano sinistra nell'Autoritratto, assieme con l'anno d'esecuzione dell'opera (1758) e alcune scarne informazioni di carattere autobiografico: l'appartenenza all'ordine dei Predicatori, la nascita livornese e l'origine "alemanna". La qualifica di "Archimelanzographus" (capo dei disegnatori a inchiostro nero) del museo fiorentino compare accanto al nome di De Greyss - precedendo quelle di "Theologiae bonarumquae Artium Professor" - pure in calce a una finissima riproduzione a penna e inchiostro datata 1756 di un dipinto di Girolamo Savonarola come beato, opera al tempo attribuita a Michelangelo Buonarroti (Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, Coll. Iconografica, H.5, 12, fasc. VII. n. 12. - Sebregondi 2004, cat. 122).

Dell'opera affidatagli dal granduca, De Greyss firmò invero come lavoro autonomo solo la pianta generale del museo, una carta con un breve settore del corridoio di Levante e la tavola proemiale (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Min. 32/1, rispettivamente cc. 2r, 4r, e 1r; nelle cc. 3r e 7r collaborò rispettivamente con Filidauro Rossi e Claudio Valvani). In quest'ultima, che nonostante la dichiarazione d'inventio apposta in calce riprende con piccole variazioni un disegno del quadraturista Vincenzo Torrigiani inciso da Vincenzo Franceschini (frontespizio a Manni 1745), De Greyss si rappresentò a figura intera nell'atto di mostrare un disegno a Francesco Stefano. Per il resto il religioso pare essersi dedicato a coordinare i lavori di rilievo e a formare nella tecnica del tocco in penna, in uno studio appositamente allestito nel convento di S. Maria Novella, una squadra di disegnatori di varia nazionalità (Incerpi 2011, pp. 59-60, nota 6. e Muscillo 2019, p. 165, nota 4). Come testimonia un Libro di Ricordanze del convento domenicano di S. Jacopo a Ripoli, De Greyss morì a Venezia il 15 aprile 1759, proprio mentre era in viaggio per Vienna per presentare al granduca i primi frutti di questo lavoro (Viviani della Robbia 1949, pp. 220-221).

Il rilievo della Galleria in penna e inchiostro proseguì sino al 1773 sotto la direzione e con l'opera di Giuseppe Maria Magni, che in una delle tavole dedicate alla "Sala [degli autoritratti] dei Pittori" incluse anche l'autoritratto di De Greyss (Vienna, Österreichischen Nationalbibliothek, Cod. Min. 51, c. 1r), ammesso in Galleria entro il 1763, anno in cui le dette tavole furono portate a Vienna (Firenze, Archivio della Galleria degli Uffizi, filza VI, n. 41 - Fileti Mazza - Tomasello 1999, p. 166). Il disegno, riprodotto da Magni in forma alterata, limitatamente al solo volto e alle spalle, occupava al tempo una posizione apparentemente umile, nel registro più basso della parete Est della sala, a pochi centimetri dal pavimento. Tuttavia la sua collocazione tra le effigi di altri artisti "nordici" di grande fama quali gli olandesi Rembrandt, Carol de Moor, Gerritt Dou e il ginevrino Jacques-Antoine Arlaud (presenti a destra e a sinistra dell'Autoritratto), e soprattutto i due sommi pittori del Rinascimento germanico Albrecht Dürer e Lucas Cranach il Vecchio (appesi immediatamente al di sopra) (Fig. 1), sembra intesa a esaltare la qualità artistica del frate livornese alemanno, collocando al contempo la sua opera in una precisa linea di discendenza stilistica secondo i più avanzati criteri di storiografici e museografici del tempo. In effetti nella scelta della posa, nel rigore analitico con cui rappresenta ogni dettaglio dell'anatomia e del costume, De Greyss sembra guardare, più che ai modi ritrattistici dei suoi contemporanei, specie di quelli italiani, a modelli cronologicamente alti e poco scontati: pittori rinascimentali fiorentini quali Domenico Ghirlandaio e Botticelli (con un'opera del quale - San Tommaso d'Aquino, Riggisberg, Abegg-Stiftung - l'Autoritratto sembra avere più che un generico legame), i fiamminghi Hans Memling e Hugo Van der Goes, e appunto i tedeschi Cranach e Dürer.

Scarse e vaghe sono le notizie sulla vita di De Greyss e del tutto assenti quelle sulla sua educazione artistica e culturale, né si sa bene come egli sia entrato in contatto con la corte lorenese. Marchese riporta che egli nacque da un certo Francesco, "alemanno" residente a Livorno, di professione e fortune ignote, e che risiedé dapprima nel convento fiorentino di S. Marco (Marchese 1879, pp. 506-7). Da qui De Greyss si spostò poi in data ignota in quello di S. Maria Novella (Pera 1867, pp. 214-215), forse solo per poter meglio attendere al lavoro d'illustrazione della Galleria. Il già citato Libro di Ricordanze di S. Jacopo a Ripoli sostiene che "Vi è poco di sue opere […] sempre rare per chi ne ha" (Viviani della Robbia 1949, p. 221); e in effetti della produzione grafica in penna e inchiostro di De Greyss, al di là del suddetto lavoro di illustrazione della Galleria, del Savonarola e dell'Autoritratto, si conserva una sola altra opera firmata: elegante riproduzione della Venere Medici (Siena, Collezione Chigi Saracini, inv. 1513 - Relazione Saracini 1819; Fileti Mazza e Gaeta Bertelà 2005, 1, cat. 965). Nella stessa Galleria degli Uffizi si conserva inoltre una versione a matita dell'Autoritratto, verosimilmente preliminare a quella in penna (Gabinetto Disegni e Stampe, 16490 F - Pellegrini Boni 1988).

Di Benedetto Vincenzo è ricordata anche l'attività di incisore (Marchese 1879, p. 507), ma di questa è oggi rintracciabile solo una traduzione a puntasecca del già più volte citato Savonarola, datata 1757 (Roma, Gabinetto Nazionale dei Disegni e delle Stampe, Fondo Corsini, inv. 48334 - Sebregondi 2004, cat. 123). Irreperibile è invece l'unica stampa citata da Marchese, riproduzione "a bulino" del ritratto del cardinale domenicano Niccolò Albertini da Prato di Simone Memmi nel Cappellone degli Spagnoli in S. Maria Novella. La scelta di tecniche incisorie come la puntasecca e il bulino, desuete nella seconda metà del Settecento salvo che come integrazione all'acquaforte, e l'attenzione antiquaria a fonti iconografiche tre, quattro e primo cinquecentesche, suggeriscono, come pure le caratteristiche formali dell'Autoritratto, un vivo interesse di De Greyss per aspetti e momenti della storia artistica al tempo ancora poco indagati. La reputazione di antiquario del religioso livornese alemanno sembra del resto attestata anche dalla sua associazione all'Accademia Etrusca di Cortona (dichiarata nel disegno e nell'incisione del Savonarola), istituzione alla quale aderirono, tra la sua fondazione nel 1727 e la metà del secolo, grandi personalità del mondo culturale toscano quali Filippo Bonarroti, Anton Francesco Gori, Antonio Cocchi (tutti impegnati, come De Greyss, in progetti di pubblicazione e divulgazione per immagini dell'immenso patrimonio artistico granducale), ed anche stranieri illustri quali Montesquieu e Voltaire (Barocchi - Gallo 1985).

Giovanni Santucci

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Domenico Maria Manni, Azioni gloriose degli Uomini Illustri Fiorentini espresse co' loro ritratti nelle volte della Real Galleria di Toscana (Firenze, 1745).
  • Attilio Mori, "Una carta topografica inedita del Casentino del secolo XVIII," in Scritti di Geografia e di Storia della Geografia concernenti l'Italia pubblicati in onore di Giuseppe Dalla Vedova (Firenze: Tipografia M. Ricci 1908), pp. 309-321.
  • Enrica Viviani Della Robbia, Nei monasteri fiorentini (Firenze: Sansoni, 1946).
  • Detlef Heikamp, "Le Musèe des Ofices au XVIII° siècle, un inventaire dessiné", L'œil, n. 169 (1969), pp. 3-10, 74.
  • Silvia Meloni Trkulja, "La collezione Pazzi (autoritratti per gli Uffizi): un'operazione sospetta, un documento malevolo", Paragone, xxix, (1978), 343, pp. 79-123.
  • Luciano Berti (a cura di), Gli Uffizi. Catalogo generale (Firenze: Centro Di, 1980).
  • Paola Barocchi, "La storia della Galleria degli Uffizi e la storiografia artistica", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, 12, 4, (1982), pp. 1411-523.
  • Detlef Heikamp, La Galleria degli Uffizi descritta e disegnata, in Gli Uffizi. Quattro secoli di una Galleria, atti del convegno internazionale di studi (Firenze, 20-24 settembre 1982), vol. II, a cura di P. Barocchi, G. Ragionieri (Firenze: L. Olscki, 1983), pp. 461-541.
  • Paola Barocchi e Daniela Gallo (a cura di), L'Accademia Etrusca, catalogo della mostra (Cortona 19 maggio - 20 ottobre 1985), (Firenze e Milano: Electa Regione Toscana, 1985).
  • Paola Barocchi, Giovanna Gaeta Bertelà, "Per una storia visiva della Galleria fiorentina: il catalogo dimostrativo di Giuseppe Bianchi del 1768", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, 16, 4, (1986), pp. 1117-27, 1129-95, 1197-230.
  • Piera Bocci Pacini, Francesco Petrone, "Per una storia visiva della Galleria Fiorentina: Il catalogo dimostrativo di Giuseppe Bianchi del 1768", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, 24, 1 (1994), pp. 397-437.
  • Miriam Fileti Mazza e Giovanna Gaeta Bertelà, Collezione Chigi Saracini nel palazzo di Siena: inventario generale (Siena: Palazzo Chigi Saracini, 2005).
  • Miriam Fileti Mazza e Bruna Tomasello, "Da Antonio Cocchi a Giuseppe Pelli Bencivenni: pensiero e prassi in Galleria," in La Galleria rinnovata e accresciuta: gli Uffizi nella prima epoca lorenese, a cura di M. Fileti Mazza, E. Spalletti, B.M. Tomasello (Firenze: Centro Di, 2008).
  • Gabriella Incerpi, Semplici e continue diligenze. Conservazione e restauro nelle gallerie di Firenze nel Settecento e nell'Ottocento (Firenze: Edifir, 2011).
  • Duccio K. Marignoli, "Un'inedita mappa della diocesi di Spoleto delineata da P. Antonino de Greyss per l'Abate Gaetano Bellini", Spoletim, 50-51, 6-7, (2013), pp. 147-153.
  • Alessandro Muscillo, "Iscrizioni di carta. La collezione epigrafica della Galleria degli Uffizi nell'Inventario disegnato coordinato da Benedetto Vincenzo De Greyss," in Epigrafia tra erudizione antiquaria e scienza storica. Ad honorem Detlef Heikamp, a cura di F. Paolucci (Firenze: Firenze University Press, 2019), pp. 165-209.
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La battaglia di Livorno

Il 14 marzo 1653 fu combattuta nelle acque antistanti Livorno l'ultima grande battaglia della prima guerra anglo-olandese, l'unica che ebbe per scenario il Mediterraneo, e in cui la vittoria arrise alla marina delle Province Unite.

Una squadra inglese di sei navi, sotto il comando del capitano Henry Appleton, rimase bloccata all'interno del porto per il sopraggiungere di una ben più potente squadra olandese (16 vascelli), affidata all'ammiraglio Johan van Galen (1604-1653). Come un topo intrappolato nella tana, ad Appleton non rimase che sperare nel soccorso esterno, rappresentato da una seconda squadra inglese attesa dal Levante: otto navi sotto il comando del capitano Richard Badiley (ca. 1616-1656), di scorta ad un convoglio mercantile.

Non appena le navi di Badiley furono avvistate nei pressi della Meloria, la squadra di Van Galen si mise in posizione per avventarsi sul nemico, intanto Appleton portava le sue navi a ridosso del molo con l'intenzione di riguadagnare il mare e prendere Van Galen alle spalle. Pare che Appleton agisse in maniera intempestiva, uscì dal molo senza aspettare che Van Galen ingaggiasse battaglia con Badiley, permettendo così alla squadra olandese la virata di poppa per porsi sopra vento sulle navi in uscita dal porto, che furono tutte devastate dalle cannonate nemiche. La Buonaventura, la prima nave ad esporsi al fuoco olandese, in men che non si dica prese una palla nella Santa Barbara, e i Livornesi, che si godevano lo spettacolo dagli spalti della Fortezza, sentirono un boato terrificante, "vedendosi per aria - si legge in una relazione - con horrendo spettacolo huomini e tavole, & altro, & in un istante si sommerse [la nave], senza vedersi un pur minimo vestigio".

Il combattimento durò l'intera giornata, e le perdite furono ingenti da una parte e dall'altra. Lo stesso Van Galen, ferito a una gamba non poté gioire della vittoria, morì qualche giorno dopo nonostante l'amputazione eseguita dal cerusico. La sua salma fu imbalsamata, inviata in Olanda e inumata nella Nieuwe Kerk di Amsterdam insieme agli altri eroi del mare. Tutt'altra sorte ebbero i corpi dei marinai caduti, che solo in parte furono ripescati dai livornesi. Non è possibile essere molto precisi sul costo umano della battaglia di Livorno, le testimonianze in proposito sono tutte in disaccordo. La sopra citata relazione parla di 389 morti e 293 feriti tra gli inglesi, e di 123 morti e 165 feriti tra gli olandesi.

Fu comunque una battaglia estremamente cruenta. All'epoca le marine militari avevano cominciato ad imbarcare artiglierie micidiali, ma non avevano ancora messo a punto le tattiche navali per contenere i danni del fuoco nemico. L'estensore della relazione fu sconcertato dall'immane spargimento di sangue, ma anche ammirato dall'abnegazione degli uomini: "E così - scrisse a conclusione della sua relazione - a vista di questa Città è seguito in poco tempo sì lagrimoso spettacolo, dando a conoscere quanta sia la ferocia delle Battaglie Marittime fra queste brave nationi, dove l'Artiglierie si maneggiano, come se fossero moschetti, e senza cura alcuna delle proprie vite, si espongono a generosa morte per la gloria delle loro patrie".

Andrea Addobbati

Pietro Ciafferi

  • A
    Il porto di Livorno e la battaglia del 1652 1654 ca. Olio su tela
    36,5x72 cm
    Iscrizioni: siglato con le iniziali "P.C." intrecciate su un cartiglio affisso sul muro all'estrema sinistra. Sull'intera lunghezza del muretto della darsena una legenda con lettere che permette di identificare le principali imbarcazioni. Livorno, Musei Civici

Anonimo

(precedentemente attribuito a Johannes Lingelbach)

  • B
    Bataglia secuita tra li vaseli olandesi e inglesi il di 14 Marzo 1653 1653-1660 Olio su tela incollata su supporto ligneo
    114x216 cm
    Inv. SK-A-1391
    Iscrizioni: in basso a sinistra sulla base del monumento "Bataglia secuita tra li vaseli olandesi e inglesi il di 14 Marzo 1653"; in basso a destra, su un foglio "A. Adm.l van galen schietende d'Engelse brander ind' gront / B. Cap. corn. tromp die de samson abordeerde en door de Brander verbrant wiert / C. De Son en Julius cesar die de Luijpert Abordeerde veroverde / D. Cap van Sonne die tegens drie fregatten slaechs was en daer na de Levantse Coopman verovert / E. Susanna en d'Swarten Arent die 't schip pelgrom abordeerd en veroverde / F. Cap Adriaen Roothaas / G. scheepen keerende na de Reede / H. d' engs. Adm.l Bodelei met een Brander en seve scheepen comende van porte lognone / I. schip Bonaventura gespronge sijnde door den Admirael van galen en Cap Roothaes in de Brant geschoten / K. 't schip Maria dat 't ontseijlt is."
    Provenienza: Rijkswerf, Rotterdam fino al 1832; trasferito al Ministero della Marina, L'Aja; dal 1883 Rijksmuseum, Amsterdam.
    Amsterdam, Rijksmuseum

La battaglia ingaggiata da olandesi ed inglesi di fronte al porto di Livorno nel marzo 1653 (1652 secondo il calendario fiorentino ab Incarnatione) ebbe straordinaria risonanza, non solo nei paesi direttamente coinvolti nella guerra ma anche nel resto d'Europa dove immagini e notizie si diffusero rapidamente attraverso la stampa. Non mancarono le opere pittoriche; di diversi formati e con evidente intento commemorativo, questi dipinti contribuirono in maniera determinante allo sviluppo di un genere pittorico che appartiene alla pittura di storia, più che alla pittura di marine, e che testimonia l'evoluzione dell'arte della guerra.

I due dipinti qui discussi rappresentano le due tipologie dell'iconografia della battaglia di Livorno, determinate dai diversi punti di vista selezionati dai loro autori. Pietro Ciafferi (1600-1661), pittore livornese che presumibilmente fu testimone oculare dell'evento, sceglie di far coincidere il punto di vista dello spettatore con quello dei cittadini che nel suo dipinto si affollano di fronte alla darsena, letteralmente traducendo in pittura quell' "a vista di questa città", espressione usata dall'autore della Relatione della Battaglia seguita frà l'Armate Olandese e Inglese (Livorno: Giovan Vincenzo Bonfigli, 1653). Il pubblico, raffigurato in una varietà di abbigliamenti allusivi alla multiculturalità della città, assiste alla battaglia totalmente assorto, frammentandosi in animate conversazioni, gesticolando e parteggiando per uno o l'altro dei contendenti. Il gruppo di giovani arrampicato sull'alto muro a sinistra innalza la bandiera olandese e veste abiti degli stessi colori del vessillo che agitano, probabilmente perché appartenenti alla Nazione. Le navi sono identificate da lettere riconducibili alla legenda che qui è intelligentemente integrata nella composizione perché raffigurata come incisa nel muretto in primo piano, conferendo a questo elemento didascalico una monumentalità che pertiene appunto alla storia, ma non compresa dagli imitatori che affidano invece alla fragilità di un foglio di carta l'elenco di navi e comandanti coinvolti nello scontro.

È evidente la derivazione dal Ciafferi del dipinto un tempo attribuito a Johannes Lingelbach (1622-1674) e successivamente declassato ad "Anonimo" dal Rijksmuseum. Pur introducendo delle modifiche, tra le quali sono particolarmente evidenti le accresciute dimensioni e la trasformazione del muro a sinistra in un monumento decisamente barocco, e aumentando considerevolmente il numero degli spettatori, molti dei quali abbigliati all'olandese, l'autore ha conservato l'originale punto di vista del Ciafferi. Ciò fa supporre che l'opera sia stata prodotta a Livorno da qualcuno che aveva accesso al dipinto del pittore toscano, che non fu mai tradotto in incisione; sorgono quindi numerosi interrogativi relativi alla committenza che dovette provenire, molto probabilmente, proprio dalla nazione Olandese Alemanna.

Cinzia Maria Sicca

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Jeroen Giltaij e Jan Kelch, Praise of Ships and the Sea: The Dutch Marine Painters of the 17th Century (Rotterdam: University of Washington Press, 1996).
  • Peter Sigmond e Wouter Kloek, Sea Battles in the Dutch Golden Age, (Zwolle: W Books, 2014).

Reinier Nooms

  • Battaglia di Livorno 1653-1664 Olio su tela
    142x225 cm
    Inv. SK-A-294
    Iscrizioni: firmato "R: Zeeman" sulla fascia bianca della bandiera della nave Zon al centro.
    Su un foglio sulla sinistra: "Zeegevecht voor Livorno tusschen de nederlantsche en Engelschevloten onder het bestier van de Commandeurs Jan van Galen en Sir Appleton. Voorgevallen den 14. maert 1653 / Nº 1 - 'T Schip madonna della vigne - 't welck eenschoot onder water krijgende, naer de wall liep / 2 - De maeght van Enckhuijsennemende den Levantschen Coopman van Armenien / 3 & 4 - De Son en JuliusCaesar, die ten Com:er Appleton aborderen en veroveren / 5 & 6 - De Suzanna en deSwarten Arent, die de Pelgrim aborderen en veroveren / 7 - Den Com.er van Gaelenschiende den - Engelschen bonadvonture in de brant / 8 - Cap.n Tromp denEngelschen Samson een wijl aenbort gelegen hebbende doet hem door eenbrander verbranden / 9 - 'T Schip Maria, die het alleen ontscijlde / 10 - Den adm:lBodley, met 8 schepen en een brander, boven windt zijnde dorst niet affcomen / 11- Een brander van d'Engelsche door den Com.er van galen in de gront geschooten".
    Provenienza: acquistato nel 1800.
    Amsterdam, Rijksmuseum

Il grande dipinto di Reinier Nooms (1624-1664), noto anche come Reinier Zeeman, il marinaio, il nome usato anche per firmare questo grande olio su tela, presenta la battaglia dal mare secondo lo schema introdotto da Willem Van de Velde I. Questo punto di vista, che presuppone il pittore su un'imbarcazione, permette una visione ravvicinata dello scontro e una puntuale raffigurazione delle squadre in campo. Non solo ogni vascello è numerato, ma le insegne di ciascuno sono chiaramente identificabili.

Nooms, che era nato a Amsterdam, trascorse alcuni anni a Parigi tra la fine degli anni '40 e gli inizi degli anni '50 del Seicento dove pare abbia appreso la tecnica dell'incisione nello studio del pittore ed incisore fiammingo Matthieu van Plattenberg (1607/1608-1660), e dove pubblicò due serie di vedute della capitale francese e dei suoi dintorni: il Receuil de plusiers Nauires, et Païsages faits après le naturel par R. Zeeman 1650 e Quelque Nauires desseigner & graver par Remy Seeman Ao1652. Nooms probabilmente tornò a Parigi nel 1656 per poi dirigersi verso sud, toccando varie località nel bacino del Mediterraneo che documentò attraverso disegni ed incisioni. Dal 1661 al 1663 Nooms accompagnò l'ammiraglio Michiel de Ruyter in una spedizione contro i pirati sulle coste nord africane, da questo viaggio derivarono quattro grandi tele per l'Ammiragliato di Amsterdam, oggi conservate al Rijksmuseum, raffiguranti vedute dal mare delle città di Algeri, Tunisi, Tripoli e La Valletta, tutte di identiche dimensioni (65,5x110 cm.). Le grandi dimensioni della sua Battaglia di Livorno sembrano suggerire una commissione pubblica.

Cinzia Maria Sicca

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Jeroen Giltaij e Jan Kelch, Praise of Ships and the Sea: The Dutch Marine Painters of the 17th Century (Rotterdam: University of Washington Press, 1996).
  • Peter Sigmond e Wouter Kloek, Sea Battles in the Dutch Golden Age, (Zwolle: W Books, 2014).

Willem van de Velde I

  • La Battaglia di Livorno 1654 ca. Penna, inchiostro nero e acquerello grigio su fondo preparato avorio
    114x160 cm
    Inv. SK-A-1364
    Iscrizioni: firmato in basso a destra sul fondo della botte "W.V./Velde".
    Provenienza: Cornelis Tromp; per discendenza nella famiglia Tromp fino al 1887 quando venne acquistato dal museo.
    Amsterdam, Rijksmuseum

I primi disegni di Willem van de Velde I (1611-1693) risalgono agli anni '30 e '40 del Seicento e raffigurano singole navi o squadre della flotta olandese alla fonda; la sua fama deriva tuttavia dalle rappresentazioni di celebri battaglie navali, prevalentemente eseguite per conto dell'ammiragliato olandese. Il pittore, infatti, viaggiò più volte con la flotta militare per osservare dal vero, da una galeotta (galjoot) equipaggiata con due o tre marinai e in grado di muoversi rapidamente tra i vascelli armati, i combattimenti e fissarli in molteplici schizzi dai quali, una volta rientrato nel suo studio, traeva meticolosi ed elaborati disegni a penna (penschilderijen) o grisailles spesso utilizzati per la produzione di arazzi.

Durante la prima guerra anglo-olandese (1652-1654) Van de Velde si imbarcò al seguito dell'ammiraglio Maarten Tromp (1598-1653) e realizzò numerosi disegni sia della flotta olandese che di quella inglese, in particolare della battaglia di Scheveningen nel corso della quale Tromp cadde ferito a morte. Il figlio Cornelis Tromp (1629-1691), che celebrava la sua discendenza attraverso il motto "FORTES CREANTUR FORTIBUS" (fig. 1), commissionò questo disegno per celebrare il proprio ruolo come capitano della nave Maan (o Halve Maan, Luna o Mezza Luna) nella battaglia navale tra inglesi e olandesi di fronte al porto di Livorno il 4 marzo 1653.

Il disegno è conservato nella sua cornice originale che nella parte superiore contiene, sorretto da grifoni alati e circondato da trofei di armi, lo stemma di Tromp e nella parte inferiore un cartiglio con una lunga iscrizione con funzione di legenda della scena raffigurata ("Den H…dige Zeestrijt tussen … Vlooten … Hollan… } en de Engelsengeschiet voor Livorno A[nno] [165]3A. Adm … de Heer Johan van Galen | 1. DenEngelsen {adm.} met eenige schepen | [boven] d'wint blijvendeB. Vice Ad. De Boervan Enchuijsen | 2. Vice Adm. AppletonC. Sch[out bij na]cht de Heer Corn. Tromp | 3. Bonavontuer springt in de luchtD. De …. | 4. Schout bij nacht 't vergat FenixE.de Julius Caesar | 5. Een lopende Engel[sman]F. S..o…. | 6. {de Sing…}G.Enckhuijser Maegt anboort van de Eng… | … d' Hr Adm. H. een sinckent Hollantsschip | […gescho}tenI. Een Hollants … | K. Eenige Hollants schepen").

Sebbene l'iscrizione ricordi l'ammiraglio Johan van Galen (1604-1653), capo dei 16 vascelli della vittoriosa squadra olandese (fig. 2), il fuoco del disegno e dell'azione è lo scontro diretto tra la nave Maan, comandata da Tromp e contraddistinta dalla mezza luna, e la Samson del capitano Henry Appleton, raffigurata mentre colpita sta andando a fuoco; sono poi chiaramente riconoscibili le navi Zon (comandata da Pieter van Zalingen), e la Witte Olifant, mentre i vascelli inglesi si riconoscono per i vessilli con la croce di San Giorgio. È probabile che esistesse un disegno più esteso della battaglia di Livorno, formato da più fogli uniti assieme come nel caso dei sei fogli raffiguranti la battaglia navale di Scheveningen (New York, The Morgan Library, Inv. 2017.266) datati 1653, e che il pittore potesse elaborare scene mirate per diversi committenti. Van de Velde, che non risulta essere stato presente a Livorno, rende con incredibile minuzia e realismo il violentissimo scontro, coinvolgendo l'osservatore in un'esperienza sinestetica. Il profilo della città è visibile sullo sfondo a sinistra, ma risulta generico e non chiaramente caratterizzato.

Il commodoro Van Galen, ferito ad una gamba durante la battaglia e deceduto pochi giorni dopo, fu sepolto con un grande funerale di stato nella Nieuwe Kerk di Amsterdam dove è commemorato da un monumento funebre commissionato dagli Stati Generali allo scultore Artus Quellijn (1609-1668), il quale tra il 1635 e il 1639 si era formato a Roma nello studio di François Duquesnoy. Il fronte del sarcofago su cui giace Van Galen, raffigurato in armatura (fig. 3), è decorato da un bassorilievo in marmo bianco di Carrara raffigurante una battaglia navale che ricorda, nella parte centrale, il disegno di Van de Velde.

Cinzia Maria Sicca

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Arnold Houbraken, De Groote Schouburgh der Nederlantsche Konstschilders en Schilderessen, 3 voll. in 1 (Gravesende: Bouquet et Gaillard, 1753) [Willem vanden Velde], De groote schouburgh der Nederlantsche konstschilders en schilderessen (3 delen), Arnold Houbraken - dbnl (ultima consultazione 30 settembre 2022).
  • Michael Strang Robinson, Van de Velde Drawings: A Catalogue of Drawings in the National Maritime Museum Made by the Elder and Younger Willem van de Velde (Cambridge: Cambridge University Press, 1958).
  • Alexandra Libby, Water, Wind and Waves. Marine Paintings from the Dutch Golden Age, catalogo della mostra (Washington D.C., National Gallery of Art, 1 luglio - 25 novembre 2018), (Washington: National Gallery of Art, 2018).

Anonimo

  • Battaglia di Johan van Galen contro Appleton presso Livorno (Slagh van Johan Van Galen tegens Appleton voor Livorne) 1653 Incisione a acquaforte e bulino
    180x272 mm
    Inv. RP-P-OB-81.768
    Provenienza: acquistata nel 1881. Amsterdam, Rijksmuseum

L'incisione fu pubblicata sotto il mese di marzo 1653, tra le pp. 26 e 27 dell' Hollantze Mercurius, Vervaetende Het gepasserde in Europa, voornamelijck den Engels ende Nederlantsen Oorlogh, voorgevallen in 't gohelle Jaer 1653 (Harlem: Pieter Casteleyn, 1662), una cronaca della prima guerra anglo olandese pubblicata a Harlem da Pieter Casteleyn (1618-1676). Figlio dello stampatore e libraio Vincent Casteleyn († 1658), e fratello di Abraham (1628-1681) editore, Casper (ca. 1625-1661) pittore, e Vincent (1618-1676) pittore e coloraro, tutti attivi a Harlem, Pieter fu anche incisore e questo lascia supporre che egli possa essere l'autore dell'incisione, che è altrimenti priva di firma. Una tavola delle stesse dimensioni (180x269 mm.) e stilisticamente analoga è collocata al mese di agosto 1563, tra le pp. 72 e 73, ad illustrare la battaglia navale tra l'Ammiraglio Tromp e l'Ammiraglio inglese Black (fig.1). Entrambe le illustrazioni recano dettagliate legende che permettono di individuare le navi ed i loro comandanti. L'incisione raffigurante la battaglia di Livorno è a corredo della traduzione in olandese della Relatione della Battaglia seguita frà l'Armate Olandese e Inglese pubblicata a Livorno da Giovan Vincenzo Bonfigli nel 1653.

L'incisione ben rappresenta il rapido diffondersi dello stile di Willem Van de Velde I e il tipo di iconografia della battaglia navale affermatosi presso l'Ammiragliato di Amsterdam; è inoltre evidente come questo tipo di rappresentazione, facilmente applicabile ad episodi bellici diversi, fosse funzionale al giornalismo e alle reti di comunicazione europee che legavano le comunità straniere residenti a Livorno ai loro paesi di origine.

Cinzia Maria Sicca

Riferimenti bibliografici e documentari:

  • Paul Arblaster, 'London, Antwerp and Amsterdam: Journalistic Relations in the First Half of the Seventeenth Century', in The Bookshop of the World: The Role of the Low Countries in the Book-Trade 1473-1941, a cura di Lotte Hellinga, Alistair Duke et al. (Goy-Houten: Hes & De Graaf, 2001), pp. 145-150.
  • Otto Lankhorst, 'Newspapers in the Netherlands in the Seventeenth Century', in The Politics of Information in Early Modern Europe, a cura di Brendan Dooley e Sabrina Baron (London: Routledge, 2001), pp. 151-159.
  • Carmen Espejo, "European Communication Networks in the Early Modern Age", Media History, 17, 2 (2011), pp. 189-202.
  • Not Dead Things: the Dissemination of Popular Print in England, Wales, Italy and the Low Countries, 1500-1820, a cura di Joad Raymond, Roeland Harms, e Jeroen Salman (Leiden: Brill, 2013).